Dipingere a Parole

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COLLANA EDIZIONI SPECIALI

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Dipingere a Parole. Storie circolari del Chianti e del Valdarno

Un progetto del Sistema Museale del Chianti e Valdarno fiorentino A cura di Silvia Mascheroni Maria Grazia Panigada

Progetto finanziato dalla Regione Toscana nell’ambito del bando “Musei in Azione” (2018)

Ia Edizione maggio 2019 ISBN 978-88-6039-474-3 Tutti i diritti riservati © Copyright Masso delle Fate Edizioni Via Cavalcanti 9/D - 50058 Signa (FI) Tel. 055 8734414 - Fax 055 875713 www.massodellefate.it È vietata la riproduzione, anche parziale, non autorizzata con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche a uso interno o didattico. L’illecito sarà penalmente perseguibile a norma dell’art. 171 della legge n. 633 del 22. 04. 1941.


A cura di

Silvia Mascheroni Nicoletta Matteuzzi Maria Grazia Panigada

Dipingere a Parole Storie circolari del Chianti e del Valdarno


Comuni:

Con il contributo di: San Casciano Val di Pesa

Bagno a Ripoli

Barberino Tavarnelle

Figline e Incisa Valdarno

Associazioni e gruppi:

Reggello

AMISC - Amici del Museo di Impruneta e San Casciano “Marcello Possenti”

Greve in Chianti

Associazione Culturale Gruppo della Pieve

Impruneta Rignano sull’Arno

Elaborazione del progetto: Silvia Mascheroni, Nicoletta Matteuzzi, Egle Radogna, Emanuela Rossi Coordinamento: Nicoletta Matteuzzi Comunicazione social: Egle Radogna Grafica del logo: Giulia Sati Immagine di copertina: Alessandro Pucci Elaborazione grafica della copertina: Rebecca Serchi

Associazione Culturale Le Muse Teatro dei Passi

Crediti fotografici: Francesco Dini, Luca Lupi, Antonio Quattrone, Alessandro Pucci, George Tatge. Con la collaborazione di: Biblioteca Comunale di Bagno a Ripoli, Amici del Museo di Tavarnelle, don Giovanni Sassolini (parrocchia di Santa Maria Assunta a Figline), don Ottavio Failli e don Roberto Brandi (parrocchia di San Pietro a Cascia, Reggello), don Franco Del Grosso (parrocchia di Santa Lucia al Borghetto a Tavarnelle e pieve di San Pietro in Bossolo)


Dipingere a parole - Storie circolari del Chianti e del Valdarno è uno dei progetti vincitori di “Musei in azione”, bando promosso nel 2018 dalla Regione Toscana, per sostenere attività innovative e replicabili a favore dell’evoluzione del museo in un laboratorio al servizio delle comunità. L’obiettivo dell’avviso era quello di attivare processi capaci di attrarre nuovi pubblici, diversificarli, favorire l’incontro intergenerazionale e interculturale, trasformare il museo in un luogo dinamico di produzione culturale e di socialità. Il Sistema Museale del Chianti e del Valdarno che, a sud di Firenze, comprende otto Comuni, diciasette musei e numerose aree archeologiche, ha risposto all’invito della Regione, realizzando un progetto che ha proposto una nuova modalità di fruizione dei musei e ha tessuto nuove relazioni tra il patrimonio artistico e il suo territorio, le sue associazioni, le sue scuole, la sua cittadinanza, attraverso pratiche partecipative e di mediazione culturale e la sperimentazione di nuove tecniche di narrazione museale. Capolavori artistici hanno inviato nuovi messaggi e prodotto nuovi significati, rivolti non solo al mondo specialistico, ma al vissuto delle persone, riportando alla luce memorie, storie private e emozioni: la Madonna col Bambino di Ambrogio Lorenzetti al Museo Ghelli di San Casciano Val di Pesa, ad esempio, fa ricantare una vecchia ninna nanna; il Matrimonio mistico di Santa Caterina nell’Oratorio a Bagno a Ripoli riaccende la commozione del primo incontro con l’affresco; il Trittico di San Giovenale nel Museo Masaccio di Reggello riporta alla luce ricordi di vita famigliare, e così via. Le sei narrazioni esito di questa esperienza, grazie alla trama che intreccia storie personali e popolari con il linguaggio universale delle opere d’arte, offrono ai visitatori una modalità alternativa di lettura del patrimonio culturale e creano nuovi palinsesti. Si moltiplicano e si amplificano così le capacità narrative del museo e i pubblici che può raggiungere. Monica Barni Vicepresidente Regione Toscana

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Dipingere a parole è un titolo affascinante perché ben condensa lo spirito di tutto il progetto e di questo volume, che ne è sintesi e testimonianza. Le sue narrazioni contribuiscono a delineare il quadro complessivo di cosa significa l’arte per questo territorio, tra Chianti e Valdarno: il rapporto con le persone, con la loro vita, con le loro emozioni, il rapporto con le istituzioni, la forza dei singoli musei ed il valore aggiunto costituito dalla loro partecipazione ad un Sistema Museale. Anche in questo progetto, come in molti altri che sono stati attuati grazie al fondamentale contributo della Regione Toscana, è evidente la tensione che anima l’attività dei membri del Sistema: quella diretta a coordinare e dare omogeneità alle proprie attività e alle singole azioni - siano esse destinate ai visitatori, ai turisti, ai residenti o alle scuole - mantenendo però ciascuno le proprie specificità e dando a tutti un insieme di informazioni complete sulla ricchezza di questi piccoli musei, che racchiudono in sé la grande arte fiorentina, costituendo il completamento ideale dell’enorme patrimonio artistico della città. Noi sappiamo quanta fatica sia necessaria per strutturare e dare continuità a tante attività, ai numerosi incontri, ai laboratori didattici ed alle azioni di valorizzazione che ogni anno il Sistema mette in atto, insieme alla non meno importante azione di conservazione e custodia dei musei e delle loro opere d’arte. Tuttavia è bello constatare come da quando abbiamo cominciato a lavorare insieme siamo cresciuti tutti ed anche questo volume ne costituisce testimonianza: quello che le nostre scrittrici riescono a “dipingere” con le loro parole - e la pregnanza dei loro racconti è certo dovuta ad una sensibilità femminile che apporta un valore aggiunto alle loro narrazioni - è proprio il rapporto profondo che loro, e la comunità di cui sono espressione, sono riuscite ad intessere con le singole opere d’arte, fino a sentirle parte costituente delle proprie radici e del proprio vissuto, trasportandolo alla conoscenza delle generazioni, in particolar modo di quelle più giovani. Massimiliano Pescini Sindaco di San Casciano Val di Pesa

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Chiara Molducci Assessore alla Cultura di San Casciano Val di Pesa


Lavorare con le opere è un grande privilegio e una grande responsabilità. Come fare perché tutti possano vedere e capire la loro meraviglia e il loro valore? Come fare perché esse non siano idoli muti e incomprensibili di un tempo passato, arroccati sull’alta torre dell’erudizione accademica, ma possano essere invece un motore vivo e stimolante di crescita culturale e sociale? È, questa, una grande sfida e il senso di inadeguatezza è sempre in agguato, ma è doveroso provare e farlo con amore. Con Dipingere a Parole abbiamo voluto innestare nel nostro territorio un metodo di mediazione culturale profondo e coinvolgente, già sperimentato in Lombardia da Silvia Mascheroni e Maria Grazia Panigada con Simona Bodo. Un progetto che pone sullo stesso piano i due principali fulcri di attenzione del nostro Sistema Museale: le opere e le comunità. Come in un giro di vento circolare, le persone si specchiano nelle espressioni più alte del patrimonio culturale chiantigiano e valdarnese e vi si riconoscono, animandole di voci allegre e serene, cupe e burrascose. Così la prima parola che mi viene in mente nel parlare del progetto Dipingere a Parole è “gratitudine”. Verso la Regione Toscana, che ci ha dato la possibilità di realizzarlo; verso Silvia e Maria Grazia, che hanno portato in Toscana le loro competenze e la loro umanità; verso Emanuela Rossi, che ha acceso la scintilla che ci ha messe in contatto; verso le mie colleghe narratrici, generose e sensibilissime, e verso le loro associazioni: gli Amici del Museo di Impruneta e San Casciano “M. Possenti”, il Gruppo della Pieve, Le Muse, il Teatro dei Passi. Un grazie doveroso, infine, a Egle Radogna, collaboratrice del Sistema Museale per il progetto Valore Museo di Fondazione CR Firenze, che ha contribuito in maniera determinante alla stesura del progetto e alla comunicazione delle varie fasi della sua realizzazione. Nicoletta Matteuzzi Coordinatore scientifico del Sistema Museale del Chianti e Valdarno fiorentino

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Contributi

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Contributi

Claudio Rosati

Cinque piccoli musei Claudio Rosati

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inque piccoli musei nella “campagna più commovente del mondo” sfidano la postura e il silenzio del visitatore e danno voce alle persone con una narrazione suggerita dalla relazione con sei opere maestre. I racconti girano, possono accogliere nuove trame, prendono deviazioni impreviste. Chi ha partecipato, forse non lo sa per congiuntura anagrafica, ha dato vita così a una specie di “veglia” che è stata una pratica di socialità, un grande racconto collettivo arrivato tramite la mezzadria fino al Novecento. I musei hanno avuto una scossa benefica. Le opere sono diventate ancor di più patrimonio condiviso perché quello che le fa pubbliche non è la proprietà, ma la fruizione. Sono uscite dal chiuso entrando in un discorso aperto e c’è da pensare che qualcuno sia andato o tornato al museo per vederle. Il Sistema Museale del Chianti e Valdarno Fiorentino ha investito nella risorsa prima che ha il museo, quella delle persone che lo abitano, siano coloro che vi lavorano o che lo visitano; è una risorsa che può salvarlo dalla possibile deriva di un linguaggio monocorde e dominante. Non è una scelta scontata. All’ultima innovazione tecnologica – come se il museo potesse crescere espandendo solo i suoi apparati – ha preferito attingere all’esperienza, che si è sedimentata nel suo territorio, dell’intreccio dei saperi disciplinari con il vissuto personale. Una custode della Pinacoteca di Volterra raccontava di un direttore che entrando, la mattina, al museo, si rivolgeva ai suoi collaboratori, dicendo “Come stanno oggi i nostri bambini?”, riferendosi alle opere. C’è nella scena, apparentemente d’occasione, un segno non banale di umanità e quindi dell’unicità individuale del nostro legame con il patrimonio. Strappata alla sua essenzializzazione, l’opera può accompagnare biografie che ne ampliano la conoscenza senza che l’azione comporti, come dimostrano i nostri racconti, l’indulgere a un intimismo acritico. È un approccio, in parte, in sintonia con quella museologia che vuole che l’opera d’arte, più che un tesoro da accumulare, sia messa in moto come “oggetto relazionale” per liberare il «fruitore psicologicamente, 11


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fisicamente, socialmente e politicamente»1. «Le opere che passavano dall’amore alla soffitta – dice André Malraux – possono passare dall’amore al museo, ma le cose non andranno meglio. Qualsiasi opera muore quando le viene meno l’amore»2. È quindi un sentimento di affezione quello che il museo dovrebbe promuovere, tanto più un museo legato a un territorio che è più vocato, per la prossimità che ha con la popolazione, a farsi interprete «delle visioni e delle esigenze della comunità», come sollecita a fare la Carta di Siena sui musei e i paesaggi culturali. Le narrazioni portano alla ribalta, tra altre cose, un aspetto che nel museo non sempre è evidente. È quello che si è considerato il suo peccato originale: la decontestualizzazione di opere dai luoghi di origine, fossero una chiesa, un palazzo, uno spazio pubblico. Su questa “deportazione”, come è stata polemicamente chiamata, si è costruita una retorica antimuseale, con risvolti reazionari nel senso di ritorno al passato quando lo sguardo poteva essere esclusivo in una chiesa e non nella calca di una sala. Nel museo le opere avrebbero infatti perso, per dirla con Jan Clair, il loro incanto3. Nel nostro caso i luoghi di provenienza sono cappelline, oratori, chiese ancora presenti. Nei racconti si leggono in filigrana echi di cesure non sempre sanate. «Capisci? Non possiamo lasciarlo a Firenze. Questo Masaccio è nostro. Alla Soprintendenza lo devono capire», ricorda Maria Italia Lanzarini di aver ascoltato, da bambina, il parroco dire così alla mamma4. «Ti ricordo – scrive Nicoletta Matteuzzi rivolgendosi alla Vergine Assunta di Benedetto e Santi Buglioni – quando eri ancora lì, sulla parete dell’altare» nella chiesa di Santa Maria a Casavecchia «che ora, perduta te, non ha più nulla»5. Sono echi che celano le ragioni reali di conservazione quando, con la secolarizzazione della società, gli edifici religiosi stavano perdendo quella densità relazionale e sociale che ne aveva fatto luoghi custoditi 1. C. Bishop, Museologia radicale, Monza, Johan & Levi Editore, 2017 (2013), p. 50. 2. A. Malraux, La politique, la culture, Parigi, Gallimard, 1996. 3. J. Clair, La crisi dei musei. La globalizzazione della cultura, Ginevra-Milano, Skira, 2008 (2007), p. 26. 4. Cfr. infra, p. 54. 5. Cfr. infra, p. 67. 12


Contributi

Claudio Rosati

innanzi tutto dalla comunità. L’antica origine dei beni ritorna ora, come traccia di una biografia dell’opera e della comunità, nella ricomposizione che del paesaggio fanno queste voci, proponendo connessioni che sono vitali per il patrimonio. «Per essere un oggetto – scrive Pierre Schneider, nel presentare i colloqui con undici grandi artisti con cui ha visitato il Louvre – un quadro ha solo bisogno del pittore, per diventare un’opera esige anche la collaborazione di chi la guarda»6. Così «le opere antiche continuano a vivere o, per dirla altrimenti, evitano di congelarsi in oggetti di cultura e ammirazione»7. Liberato dalle ansie di prestazione turistica, dal senso di colpa della scarsità di pubblico, dal bisogno di misurare la “rendita di un visitatore”, il piccolo museo locale, come lo definiamo spesso con una locuzione che non dà conto in realtà della sua complessità, ha una predisposizione ad ascoltare le voci che lo circondano, a porre al centro non il visitatore ma la relazione della collezione con il visitatore, a sperimentare nuovi collegamenti. A manifestarsi come luogo di cultura perché dà spazio al primo luogo che è il nostro corpo.

6. P. Schneider, Louvre, mon amour, Monza, Johan & Levi Editore, 2012 (1967), p. 22. 7. Idem, p. 17. 13


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Voci per il patrimonio Emanuela Daffra

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l titolo volutamente parafrasa quello di una raccolta di saggi di Michael Baxandall, Word for pictures dove “for” con più forza del “per” italiano ha un valore multiplo e può indicare tanto parole sulle immagini, a loro dedicate, quanto parole che le sostituiscono o stanno al loro servizio. Lo storico dell’arte britannico in quel libro ragiona sulla critica d’arte e sul rapporto che instaura con il suo oggetto. In queste pagine invece, molto più modestamente, a partire da quanto realizzato dal Sistema Museale del Chianti vorrei individuare alcuni denominatori comuni delle esperienze di approccio all’arte antica in chiave narrativa autobiografica che ho seguito direttamente o che ho visto moltiplicarsi e crescere in questi anni. Cominciano ad esserci le condizioni, infatti, per individuare invarianti, peculiarità ed efficacia di questa modalità per ampliare ed approfondire la conoscenza del patrimonio. Alla base, prima di tutto, sta l’arte del descrivere. Pitture e sculture, a differenza di un testo letterario al quale ci si accosta una riga dopo l’altra, sembrano accessibili con un singolo sguardo, immediatamente e per intero. La descrizione ci svela che non è solo così, impone un percorso e una struttura all’attenzione, detta una sequenza. Prendiamo ad esempio il testo dedicato al Trittico di Reggello, che chiunque abbia studiato anche poco la storia dell’arte conosce perché opera prima di Masaccio e non manca mai nei manuali, esempio principe di innovazioni ancora acerbe. In questo caso è proposto un avvicinamento per andirivieni e “zoomate” successive: prima lo spazio, poi i santi di destra, gli angeli, i santi di sinistra, ancora gli angeli e infine, solo infine, la parte centrale dove campeggia la Madonna col Bambino. E queste figure sono introdotte attraverso l’osservazione dei dettagli. Vengono scrutati e caricati di significato i volti, gli occhi, le barbe, le legature dei libri… È un avvicinamento che è già interpretazione, perché guidato, lo scopriamo subito, dal filo di ricordi personali. Perciò non si tratta semplicemente dell’illustrazione di un’opera d’arte, di cui pure si danno, con

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Contributi

Emanuela Daffra

discrezione, moltissimi elementi oggettivi per definirne il contesto; è, piuttosto, la restituzione di un’esperienza. Proprio perché di questo si tratta, una seconda invariante fondamentale è il tono accostante, che accomuna narrazioni pur così diverse nel piglio e nel modo di riportare anche i dati storico artistici ineludibili: restituire un’esperienza implica stabilire con chi ascolta un rapporto non gerarchico ma paritario, aperto allo scambio. Il “come” si porgono spunti e nozioni, suggestioni e confronti è fattore cruciale. Da questo scaturisce un ulteriore elemento caratterizzante ed è quello che potremmo chiamare “valore dell’oralità”. È vero, le narrazioni si possono leggere o ascoltare in cuffia, davanti all’originale o alla sua riproduzione, ma danno il meglio di sé quando avvengono in presenza e diventano i presupposti di un dialogo. Un’ultima considerazione riguarda proprio il narratore. Osservare un oggetto del patrimonio ponendosi su un orizzonte di narrazione autobiografica rivoluziona gli approcci più consueti, induce innanzi tutto a porsi domande e a considerare le opere come parti della nostra vita. Il futuro narratore guarda e inserisce gli oggetti in un sistema costituito non solo da nozioni specialistiche ma anche dall’esperienza di vivere la propria epoca, che diventa un filtro di comprensione indispensabile. Così in questo caso specifico vengono colti e sottolineati i molteplici legami di ogni opera col territorio e con la sua vita che respira: sono evocate provenienze, orizzonti e paesaggi, materiali e colori, silenzi, nomi anche – di luoghi e di famiglie, e usi – vivi per centinaia di anni e ancora vitali nella memoria dei narratori, siano essi la stufa a legna o gli attrezzi del pasticcere. Per questo piuttosto che il termine neutro e spersonalizzante “parole”, preferisco parlare di voci. In questo termine c’è tutto, la pluralità e la singolarità, la vicinanza, il tono. Voci che diventano rotaie per gli sguardi di chi ascolta, che non pretendono di chiarire in modo definitivo quanto ci arriva da un passato che si allontana in modo sempre più veloce e che anche solo per questo diventa 15


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sempre più enigmatico, ma che offrendone alcune chiavi lo portano più vicino. Voci che, soprattutto, di questo passato approfondiscono la complessità e ci sfidano a farlo a nostra volta, sapendo che comunque molto delle opere d’arte – e in questo sta grande parte del loro fascino e del loro potere – resterà inafferrabile, in attesa della verità portata da altri sguardi e da altri racconti.

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Contributi

Emanuela Rossi

Il metodo narrativo nei musei: i racconti d’affezione Emanuela Rossi

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a tre anni uso nelle mie lezioni un testo che nella sua apparente semplicità è strategico per cominciare a illustrare agli studenti che patrimonio non significa solo opere d’arte, monumenti, chiese, ma c’è molto altro; e che il “diritto” di parlare di patrimonio o di riconoscerlo come tale non lo hanno solo gli studiosi, ma anche le persone che lo vivono, praticano, trasformano. Il libro al quale mi riferisco è una guida per educatori e mediatori museali a cura di Simona Bodo e Silvia Mascheroni1. Il percorso illustrato in questa guida possiede per me una certa aria di famiglia nel connettere una “cosa” (che sia opera d’arte, manufatto etnografico o altro) a una storia autobiografica: di un curatore museale, di un mediatore o anche del pubblico. La “cosa” in questione si fa quindi anche narrazione. L’uso della narrazione autobiografica in relazione a oggetti è un esperimento che Pietro Clemente ideò e portò all’interno della didattica universitaria dei corsi di antropologia sul finire degli anni Novanta a Siena. In quel periodo stavamo ragionando di schedatura scientifica di oggetti etnografici. Clemente, prendendo spunto da un noto testo dell’artista americano Man Ray, Oggetti d’affezione, cominciò con gli studenti a riflettere sull’importanza di «uscire dalla natura “generale” e “media” degli oggetti per comprenderne la dimensione d’uso personalizzato, il loro appartenere e vivere dentro biografie: ‘Questa è la vanga di mio padre’. […] L’idea del seminario fatto a Siena nel 1996-1997 con pochi ma buoni giovani allievi era quella di fare un museo virtuale di cose che fossero per chi le sceglieva “oggetti della loro affezione”, e per questo oggetti di un racconto personale, di una promessa autobiografica o racconto di vita d’altri»2. Che un museo di cose possa al contempo essere un museo di narrazio-

1. S. Bodo, S. Mascheroni, Educare al patrimonio in chiave interculturale. Guida per educatori e mediatori museali, Fondazione Ismu, Milano, 2012. 2. P. Clemente, E. Rossi, Il terzo principio della museografia. Antropologia, contadini, musei, Roma, Carocci, 1999, pp. 151-152. 17


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ni lo ebbi chiaro visitando il museo di Ettore Guatelli a Ozzano Taro (Parma). Ettore, il collezionista, quando si muoveva all’interno del suo museo, trasformava le cose esposte in narrazioni, tanto che il suo museo a un certo punto mi sembrò una sorta di mnemotecnica: come quei palazzi immaginati dai retori latini per ritenere a memoria il loro discorso3. Gli oggetti possono contenere al loro interno elementi performativi, come ha ben mostrato James Clifford in un celebre saggio che descrive la reazione di alcuni tlingit ai quali vennero mostrati manufatti della loro cultura all’interno del Portland Museum of Art nell’Oregon. All’inizio del 1989 il direttore del museo aveva riunito diverse persone a discutere della collezione di oggetti degli indigeni della costa nordoccidentale, tra queste vi erano anche alcuni anziani del gruppo tlingit. «Nel seminterrato del museo, gli oggetti della collezione furono tirati fuori uno per uno e presentati agli anziani per essere commentati: una maschera di corvo, un ornamento per il capo intarsiato in una conchiglia di aliotide, un sonaglio intarsiato... Ciò che emerse fu una serie di esibizioni complesse e toccanti, ora serie ora allegre. […] Gli oggetti non erano argomento di molti commenti diretti da parte degli anziani, che per l’incontro avevano i propri punti all’ordine del giorno. Essi fecero riferimento agli oggetti cerimoniali con apprezzamento e rispetto, ma sembravano usarli solo come promemoria, occasioni per raccontare storie e cantare canzoni»4. Con questo voglio dire che possono esserci modi diversi per porsi in relazione con le “cose”, anche con quelle che noi chiamiamo “opere d’arte”, e questi modi possono generare esiti diversi e sorprendenti. I racconti delle mediatrici, raccolti in questo volume, mi ricordano per certi versi la reazione degli anziani tlingit sopra citati. All’interno di alcuni musei sono state evocate storie, anche molto personali, che sono state drammatizzate e videoriprese; nelle narrazioni, come si può leggere più avanti, è stato tratteggiato un territorio dal quale vengono non solo le opere, ora raccolte nei musei, ma per lo più anche le mediatrici, che di quelle opere si prendono cura. Il loro raccontare, dai tratti fortemente autobiografici, non porta ad alcun “tradimento” delle opere d’arte, che 3. Ivi, pp. 138-139. 4. J. Clifford, Strade. Viaggio e traduzione alla fine del XX secolo, Torino, Bollati Boringhieri, pp. 233-234. 18


Contributi

Emanuela Rossi

sono sempre il punto di partenza e il focus della narrazione. Piuttosto i loro racconti, dove si intrecciano, come trama e ordito, episodi biografici ed elementi di storia dell’arte, aiutano a osservare con uno sguardo diverso l’opera prescelta. Ero presente quando Nicoletta Matteuzzi, responsabile del Museo Giuliano Ghelli di San Casciano, ha raccontato e messo in scena davanti alla telecamera, con una disinvoltura che mi ha sorpresa, la sua storia, entrando in risonanza con la Vergine Assunta di Benedetto e Santi Buglioni. È stato emozionante sentirla raccontare dei suoi nonni contadini e del suo babbo artigiano della pelle, mestieri di questo territorio che usurano soprattutto le mani. Per la prima volta mi sono accorta che proprio le mani di quella Vergine non sono invetriate, diversamente dal resto dell’opera, e ho imparato da Nicoletta che «il colore rosa non è adatto per la tecnica dell’invetriatura e l’unico modo per rendere più naturali gli incarnati è quello poco durevole di stendere a secco il rosa sull’argilla già cotta»5. Io, che a San Casciano ho scelto di vivere e quel museo ho visitato più volte, mai mi ero accorta di quelle mani «grosse e scrostate, con esigue tracce di pittura rosa»6. Si è da poco concluso un altro progetto che ho avuto l’onore di coordinare. L’obiettivo è stato lavorare anche in questo caso su voci e narrazioni. Alcune persone della comunità, sotto la guida di due antropologi7, si sono riunite per individuare ciò che ritengono essere patrimonio. L’esito è stata la creazione di una “mappa di comunità” per opera di un’artista che qui abita8: dalle narrazioni è nata un’opera d’arte che conferisce a queste una dimensione materiale. Mi piace sottolineare gli esiti positivi e inaspettati quando si consideri, come si è fatto nei progetti qui descritti, il patrimonio culturale in modo aperto e inclusivo.

5. Cfr. infra, p. 69. 6. Ibidem. 7. Marco D’Aureli e Costanza Lanzara. 8. Lizzy Sainsbury. 19


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Gli occhi poggiati sulla terra. Punti di vista che modellano i territori Mario Perrotta

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e “terre” di tutto il mondo si raccontano attraverso i colori delle stagioni che le pervadono e la composizione della materia che differenzia in modo inequivocabile ognuna di loro dalle altre. Così noi, ognuno di noi - assediato in tutti i cinque sensi dai colori, gli odori, le viste a perdita d’occhio, i suoni di violente tramontane marine o di ululati d’aria tra i canali di una montagna e, infine, dai sapori della terra in cui siamo cresciuti - non può che considerarsene figlio: ribelle o innamorato è da vedere, ma inesorabilmente figlio. Ma non basta, perché quelle terre sono diventate, nei secoli, “territori”, plasmati e integrati dall’opera a volte rispettosa a volte stupratrice dell’uomo. E così, l’intreccio tra i caratteri primigeni di ogni specifico angolo di terra con l’azione dello specifico gruppo umano che lo abita e lo rende territorio, diventa marchio visibile, si stampa senza scampo sui nostri volti: noi siamo quel territorio e ne portiamo addosso il racconto. Volenti o nolenti. E mi ci sono voluti anni per capire che era meglio essere “volenti”. Mi ci sono voluti anni per mettere un termine alla fuga verticale che avevo iniziato appena maggiorenne partendo da Lecce per Bologna, dove mi sarei laureato in filosofia e avrei iniziato la mia carriera teatrale. Ero un ragazzino di provincia che voleva sentirsi metropolitano e avevo affidato questa aspirazione al trasferimento in Emilia. Bologna era una sorta di mecca dell’universitario che mi avrebbe tolto di dosso le piccolezze delle provincia leccese. Ma passati gli anni della laurea e delle prime tournée con le compagnie che di volta in volta mi accoglievano come giovane attore nel loro organico, Bologna cominciò a starmi stretta, troppo piccola anche lei e provinciale per le mie aspirazioni di cittadino del mondo. E così scappai anche da Bologna per affrontare quella che, territorialmente e artisticamente, è la città più grande d’Italia: Roma! Mi pareva di essere in capo al mondo. Qui tutto era caotico come deve essere una vera metropoli, qui tutto era possibile e il mondo del teatro e del cinema viveva tutto in questa città e da essa poi si dipanava verso il resto della nazione. Lo specchio però continuava a rimandarmi la mia faccia da cittadino di

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Contributi

Mario Perrotta

una piccola comunità ai confini del regno dimenticata da Dio e dagli uomini (erano gli anni ’90 e nessuno ci aveva ancora scoperto). E non solo: anche il mio articolare i suoni, nonostante i lunghi studi da attore, dichiarava brutalmente una provenienza. Cercai allora di pulire ancor più la lingua, almeno quella, visto che alla mia faccia salentina dovevo rassegnarmi. E fu una notte, mentre tentavo questa improbabile alchimia genetica, che, invece, ebbi la folgorazione: stavo fuggendo, da anni, ma io ero e sarei rimasto leccese, figlio della mia terra. Ci vollero solo ventiquattro ore per dire a me stesso che dovevo tornare a casa, tornarci con l’anima se non con il corpo. Così nacque il mio primo spettacolo in solitaria, quello che mi ha cambiato la vita, sia professionale che personale. In esso, il racconto di un popolo di migranti come i salentini si intrecciava con il racconto della mia vita e il tutto in una lingua che era finalmente mia, profondamente mia: il dialetto leccese. Con quello spettacolo diventai un “oggetto” teatrale riconoscibile e da allora i segni impressi sul mio volto e nelle mie parole dal territorio in cui sono nato, sono diventati materia bruciante di molti miei progetti teatrali, radiofonici e televisivi. Ecco, oggi leggendo i racconti di Alice, Daniela, Francesca, Maria Italia, Nicoletta e Tiziana, rivedo esattamente quel che è accaduto a me quando ho capito che ero, senza possibilità altra, figlio della mia terra: il racconto autobiografico che si intreccia con l’oggetto d’arte, figlio anch’esso di quel territorio e degli uomini che, in passato, lo hanno plasmato. Così loro, le autrici dei racconti che compongono questo volume, creano un cortocircuito virtuoso: mentre raccontano di come la loro vita reale e immaginifica si sia intrecciata con il territorio e con un’opera d’arte del territorio, al contempo proseguono, alimentano, espandono il racconto del territorio stesso, arricchendolo delle loro narrazioni. Chiuso il cerchio, infine, la direzione si inverte e tutto torna verso la comunità-territorio da cui era partito, poiché queste narrazioni diventano strumento di attrazione verso le opere di cui parlano e offrono nuove letture delle stesse, creando nuove fascinazioni anche in chi pensava di conoscerne tutti i segreti. Questi racconti, senza volerlo, modificheranno e per sempre lo sguardo di noi che li ascoltiamo o leggiamo, soprattutto quando i nostri occhi si poggeranno sulle opere d’arte e sul territorio di cui i racconti stessi parlano. 21


Dipingere a parole. Storie circolari del Chianti e del Valdarno

Narrare di luoghi e di anime Maria Grazia Panigada

Il luogo dell’incanto «Siamo fuori dalle mura di Firenze, siamo nel suo giardino. Il rumore della città è lontano, qui ci si accorge del vento, qui si avverte l’odore delle stagioni». Le prime parole della narrazione di Francesca dicono cosa è stato per me l’inizio del progetto Dipingere a parole quando con Silvia Mascheroni abbiamo fatto il sopralluogo delle realtà che avrebbero partecipato al progetto. Nicoletta Matteuzzi, responsabile del Sistema Museale, ci accompagnava nelle varie sedi, in auto facevamo i tragitti e io mi ritrovavo incantata a guardare il verde delle colline, le badie che si rivelano inaspettate dietro una curva, il variare dell’azzurro del cielo aperto, le costruzioni turrite e la cura delle coltivazioni, il lavoro dell’uomo innestato con sapienza sullo scenario della natura. Poi è arrivata la scoperta delle gemme preziose conservate nei siti museali, piccoli e grandi capolavori custoditi nel cuore del paesaggio, centro simbolico di comunità e paesi. Avevo il cuore aperto da questo mio guardare quando è iniziato il cammino con Nicoletta, Francesca, Daniela, Maria Italia, Alice e Tiziana. Il laboratorio nel mio lavoro di narrazione è fase di conoscenza reciproca, spazio in cui tracciare i primi legami, le prime immagini di memoria della propria vita, è capacità di ampliare la percezione e l’ascolto. Il luogo dell’incontro Il salone che ci ospita nella Biblioteca del Comune di Bagno Ripoli è accogliente, qui inizialmente chiedo di portare i narratori incontrati: le parole fanno entrare nella stanza figure familiari di nonni e zii, ma anche il parroco della vicina canonica o un amore. Ognuno di questi mentori ha un proprio stile narrativo, una propria poetica, grazie ai quali affiorano dalla memoria ambienti e profumi. Anche i ricordi di terre lontane, come la guerra d’Africa, si conciliano con i luoghi familiari grazie a un arrosto cucinato per il ritorno a casa. Insieme torniamo indietro di generazioni, dal dolore di una strage nazifascista alla gioia di una comunione, 22


Contributi

Maria Grazia Panigada

dal lavoro della mezzadria alle fiabe scaturite dai quadri di casa. Le parole risvegliano i cinque sensi nel ricordo e rendono condivise sensazioni e memorie. L’incontro è ormai avvenuto sia fra chi si conosceva già, sia fra chi, come me e Silvia, è “foresto”. Le pause diventano occasioni per mangiare insieme nel tavolo fuori dalla biblioteca all’ultimo sole caldo d’ottobre. C’è piacere nello stare insieme, le poche riserve iniziali si sono sciolte. Il lavoro prosegue all’apparenza in modo più tecnico con una serie di “esercizi” per prendere coscienza dello spazio, del luogo in cui ci troviamo, delle sensazioni sensoriali ed emotive che esso ci comunica, per passare poi a guardare, o meglio a setacciare con lo sguardo, ogni piccolo particolare della stanza. Un’osservazione umile, eppure “straordinaria”, che dilata lo sguardo per fare apparire ciò che abitualmente non vediamo e scoprire che anche una piccola cosa, precisandosi nella descrizione, può diventare un “cunicolo spazio-temporale” inaspettato. Adesso è chiaro al gruppo: se particolari che appaiono così insignificanti sono così ricchi di possibilità, cosa accadrà quando davanti a noi ci saranno le opere d’arte? Quante e quali parole saremo in grado di fare scaturire? Adesso percepisco nel gruppo l’attesa, il desiderio e l’impazienza di andare nei propri musei, iniziare il dialogo con le opere d’arte. Ponte fra la fase laboratoriale e il lavoro sul patrimonio sono gli oggetti che vengono portati da ciascuno il secondo giorno. Gli oggetti vengono dalle case, dai cassetti, dalle borse e sono svelati nel silenzio dato dall’ascolto attento degli altri. Il centro di questa fase del lavoro è il desiderio: raccontare un frammento della propria storia personale si può fare solo se si desidera di essere ascoltati, andando oltre il nostro bisogno e il piacere di ascoltarci. Se ci si fermasse a un primo livello d’autogratificazione le storie sarebbero molto più superficiali, mentre la scelta viene fatta con tanta attenzione per rispondere a un bisogno reale di farsi conoscere per quello che si è. Non si può qui dischiudere lo spazio sacro degli oggetti narrati, perché troppo intimo, ma è importante sottolineare come adesso è chiaro quanto gli oggetti parlano di noi, quanto essi abbiano un potere evocativo fortissimo. Adesso si può dire che gli “oggetti” del patrimonio possono assumere la stessa prossimità degli oggetti di affezione, in un vortice di empatia, in una generatività che può entrare in risonanza con chi accompagneremo alla visita delle opere con i nostri racconti. 23


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Le chiavi o lo stare sull’uscio Tante sono le chiavi di questo nostro percorso. Partiamo dalle chiavi come oggetto di affezione che aprono case nuove o chiudono un tratto della propria vita, per arrivare alle chiavi antiche dei luoghi del patrimonio: la chiave grande e preziosa dell’Oratorio di Santa Caterina, le chiavi moderne del Museo Masaccio e del Museo di San Casciano, le chiavi degli armadi che conservano il registro delle anime nella sagrestia della Collegiata di Figline, le chiavi della canonica della pieve di San Pietro in Bossolo, la chiave che non c’è più della «porticina sgangherata» della cappellina di San Michele a Casaglia… Mi piace pensare a un tempo di sospensione, a un rito che ogni volta è avvenuto. Una pausa per prendere fiato e iniziare. Il tempo per entrare in un luogo “sacro”, quello del patrimonio che richiede cura e non può essere scontato. L’immagine è quella di Daniela che spalanca le porte e gli armadi nella sagrestia della Collegiata di Santa Maria Assunta, un gesto ripetuto, come tappe di avvicinamento all’opera, fino a entrarci socchiudendo una porticina al centro della grande tela del Cigoli: il buio della stanza dove avviene il martirio di san Lorenzo si sovrappone al corridoio buio della casa dove il nonno attraversa la sua malattia. I luoghi della bellezza e della vita La materia dei monumenti riflette i colori delle rocce naturali, l’alberese, la pietra calcarea, le opere spesso raccontano altri luoghi. I luoghi da cui sono stati prelevati i capolavori per essere salvati. A volte c’è ancora memoria dei luoghi d’origine e così percorriamo un sentiero che porta «alla cappellina di San Michele Arcangelo a Casaglia, sul crinale che si affaccia sulla Val di Pesa e la Val d’Elsa» per ritrovare la forza di una tavola di Meliore, o apriamo la porta della piccola chiesa di Santa Maria a Casavecchia dove splendeva una terracotta invetriata di Benedetto e Santi Buglioni. Altri luoghi sono solo immaginati, come la chiesina di San Giovenale del piviere di Cascia dove era custodito il polittico di Masaccio. «Capisci? Non possiamo lasciarlo a Firenze. Questo Masaccio è nostro. Alla Soprintendenza lo devono capire» sente dire dalla mamma e dal parroco la piccola Maria Italia agli inizi degli anni Sessanta quando il Trittico di Masaccio appena “scoperto” era in restauro a Firenze. È nostro, nostre sono le pievi, gli ulivi, le tavole, gli affreschi e il cielo in un senso di appartenenza che è orgoglio e insieme desiderio di condivi24


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Maria Grazia Panigada

sione. Le persone che hanno partecipato al progetto sono esperte di storia dell’arte, lavorano nei siti museali, ma ora mettono in gioco se stesse. È questo l’aspetto che mi ha affascinato e ha reso per me, che ho lavorato anche in grandi musei, questo progetto speciale, di una ricchezza unica: la grande competenza di studio intrecciata alla semplicità con cui lasciarsi andare a un nuovo sguardo. E poi c’è Tiziana, che non è di queste terre, fa l’attrice e il patrimonio su cui lavoriamo l’ha incontrato per lavoro. Per lei il Museo di San Casciano è stato il luogo dell’integrazione piena, è Tiziana che indica come i beni artistici siano i luoghi intimi in cui si preserva la comunità, porte d’accesso per farne parte. Le narrazioni richiedono tempo per essere costruire e scritte, poi arriva la fase della loro espressione per poterle raccontare ai visitatori. Per alcuni è naturale, altri si scontrano con la ritrosia di esporre la propria voce e il proprio corpo a far da tramite all’opera. Eppure è necessario perché è grazie all’incontro diretto che il museo può essere percepito come luogo accogliente e vissuto. Ora Nicoletta, Francesca, Daniela, Maria Italia, Alice e Tiziana sono “ponte” fra il territorio e il patrimonio, fra le persone che lo vivono e le opere custodite nelle sedi museali. Il lavoro è graduale e nella ripetizione ciascuno trova la voce, la postura che più gli appartiene. Ognuno ha il suo stile di narrare, personale, così come i testi sono uno diverso dall’altro, unici come le opere che raccontano. Un elemento è comune a tutte e sei le narrazioni nella loro forma espressiva dal vivo: il movimento, il giocare ancora una volta fra un dentro e un fuori. I margini di un bosco, le rive di un borro, il poggio con le colline all’orizzonte, la cucina dell’antica canonica con il grande camino, l’entrata a vetrate del museo, corridoi, stanze, scale: queste narrazioni faranno compiere a chi le ascolterà un viaggio che svela la bellezza di una terra, di una passione per l’arte.

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Le parole per dirlo: legami d’affezione tra patrimonio e vita Silvia Mascheroni

I

l racconto a voce, interpretato dalle autrici-attrici di Dipingere a parole, è sostenuto e preparato dalla “prova di scrittura”, non solo un copione o una traccia cui ancorarsi, che rivela una sua autonomia e pregnanza, e si fa permanenza nello spazio e nel tempo: il lettore farà risuonare il testo dentro di sé, altrove e oltre all’incontro in presenza nei musei, in dialogo vivo tra opere e pubblici. Ma quali sono la specificità e la relazione dello scrivere con l’oralità; quale il senso e l’importanza assunte; le eventuali difficoltà e resistenze, se incontrate? Ricorrente è il piacere di prendere carta e penna, un invito accolto con spontaneità, uno spazio di libertà: «Quando mi trovo davanti a un foglio bianco con una penna in mano non posso fare a meno di scrivere e di solito non mi fermo finché non sono arrivata in fondo all’ultima riga disponibile» (Nicoletta); «Nel testo scritto vedo l’interiorità del mio racconto e di me stessa» (Alice). Per Tiziana la scrittura è costantemente esercitata per ragioni professionali e dunque, familiare e cercata: «Scrivo, scrivo da sempre, da bambina nel tentativo di riordinare una realtà che sentivo caotica ed evanescente; scrivo, e scrivo anche di me, quando elaboro le mie drammaturgie; scrivo racconti mai pubblicati che forse un giorno racconteranno la mia storia. Mi piace la parola, la sua potenzialità, la sua potenza evocatrice, mi piace scegliere quella giusta e... dirla a voce alta». Prova felicità Maria Italia nel dare voce alla sua narrazione: «Mettere poi sulla pagina le parole è stato uno di quei momenti perfetti che ti danno una soddisfazione tale da sorridere da sola alla tastiera», forse la stessa mentre scriveva Un vuoto un pieno, affresco intenso e vivace delle sue origini, dedicato alla storia corale della sua famiglia1. Si può scrivere su qualsiasi supporto «quasi sempre improbabili (scontrini, scatoline, nastri...), che archivio con cura» (Francesca), anche un “lenzuolo libro”, quello su cui Clelia Marchi ha composto Ganca na busia, l’intenso racconto di una vita, una sorta di sudario della memoria, 1. M. I. Lanzarini, Un vuoto un pieno, Firenze, Pagnini, 2017.

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Silvia Mascheroni

un arazzo domestico, fitto fitto di righe diligentemente numerate, teatro della sua vita2. Le parole in dialogo: ti racconto, mi racconto Quali i soggetti che hanno acceso l’interesse e l’emozione delle autrici? Maria, ritratta nella sacrale intimità di Madre o assunta in cielo, e Santa Caterina: la conversazione è al femminile; e l’affezione muove il desiderio di conoscere la storia dell’opera: “Chi sei, da dove vieni, dove sei stata, chi ti portò qui?”; le narrazioni ne ripercorrono anche le tappe del viaggio compiuto, a volte un’itineranza complessa, come quella vissuta dalla Madonna col Bambino di Ambrogio Lorenzetti. La guardiamo con altri occhi, grazie al testo di Tiziana, che ne ricompone spostamenti e soste, abbandoni e scoperte. Ogni testimonianza del patrimonio si fa dunque corpo vivo: lo sradicamento, la migrazione dal luogo d’origine, fino all’approdo. Al museo, a casa, dopo tanto peregrinare. Frutto di incontri intensi, cadenzati nel tempo di vita, è la relazione con le opere, che a volte attendono di essere guardate, di divenire il cuore del racconto. «E allora è avvenuta una sorta di magia. Una sera, mentre pensavo e ripensavo, prima di addormentami, i due angeli mi sono venuti davvero in soccorso diventando me e mia cugina. Da lì, come per incanto, mi si è presentato tutto insieme l’intreccio fra la mia vita da piccola e i contenuti del Trittico. È stato un momento emozionante e anche buffo. Come se l’opera mi avesse pazientemente aspettato» (Maria Italia). «Io collezione pietre» scrive Francesca. Sospesa così, ci chiediamo il senso di questa “confidenza”, ma proseguendo nella lettura, si fa chiaro e intrigante il rimando tra autobiografia e il paesaggio culturale, teatro dell’Oratorio dove sulle pareti vive il Matrimonio mistico di Santa Caterina. Il testo di Francesca è lo spartito che ci conduce al suo disvelamento; ci chiede di avvicinarci in silenzio per aprire occhi e cuore alla vertigine dello spazio tutto dipinto, così celato, un tesoro nascosto che sorprende. Sono parole, le sue, per saper vedere: entriamo nelle diverse stanze nar2. C. Marchi, Il tuo nome sulla neve. “Gnanca na busia”. Il romanzo di una vita scritta su un lenzuolo, Milano, Il Saggiatore, 2012; il diario di Clelia Marchi è custodito presso la Fondazione Archivio Diaristico Nazionale di Pieve di Santo Stefano e ne è diventato il simbolo (www.archiviodiari.org). 27


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rative di questo “tappeto di colori”; l’intento è anche di farlo conoscere e dunque proteggerlo dall’uso improprio e dalla dimenticanza. La rimembranza si fa sensoriale (possiamo annusare, sentire, toccare) con dettagli minuti anche del paesaggio, benché appartenga a un tempo lontano, per lo più quello dell’infanzia, come se fosse ora: «i girasoli spiaccicati a terra cotti dal sole … La quercia bella e maestosa un poco piegata su stessa come facesse la riverenza … La cappellina tutta in pietra alberese con rifiniture di pietra serena e grandi e profonde crepe, come le rughe delle tartarughe» (Alice). A volte gli accenti e le citazioni dialettali fanno capolino, dando vivezza al testo, un contrappunto di cromie lessicali. La Vergine Assunta ha le mani “grosse e scrostate, callose e ispessite” come quella della nonna e del babbo di Nicoletta; i frutti, le spighe e i fiori profumano del nonno Dante, e san Biagio è lo zio Umberto-pasticcere di Maria Italia (lo strumento del martirio diviene lo strumento del lavoro); il Trittico di San Giovenale si anima delle presenze allegre e vivaci della sua famiglia. Daniela entra nella scena teatrale del Martirio di San Lorenzo: il buio e l’oscurità sono le stesse vissute da lei piccina; la risonanza autobiografica fa sì che vediamo altro, oltre la complessa trama luministica del dipinto. E la forza evocativa delle parole accende sensazioni che ognuno di noi può aver provato: chi da piccolo non ha giocato con il fuoco, complice il piacere del proibito, chi non si è incantato a seguire la danza di una favilla? Il martirio di san Lorenzo ne richiama un altro, familiare e sofferto; sono spunti autobiografici che rimandano a un sentire comune: l’infanzia dell’autrice è anche la nostra, è così un lutto o la cognizione di un dolore non pacificati. L’opera, il paesaggio culturale: le parole fanno testimonianza per ricomporre Storia e luoghi Le parole si fanno precise, proprio quelle e non altre, dedicate a ogni dettaglio dell’opera che si descrive, come quando un amico ci chiede di disegnare per lui qualcuno, qualcosa che abbiamo conosciuto e che si desidera condividere. Le parole si fanno puntuali e raffinate: ogni sapere si esprime con un lessico specifico, il suo, e così le parti dei testi che affrontano la biografia culturale dell’autore e dell’opera hanno riguardo e osservanza per il dizionario della storia dell’arte. Anche se (inevitabilmente) solo per cenni, 28


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Silvia Mascheroni

ogni autore e ogni opera sono corredati da notizie e fonti, dati e date. Ad esempio, la formazione dell’artista e il rapporto con altri autori coevi, a chi ha guardato, da chi è stato studiato. Per le opere: si ricompongono la fortuna critica, gli interventi di restauro, i passaggi di proprietà, la tecnica e la lavorazione. E ancora, i testi ci permettono di conoscere il significato di pregnanze iconografiche e iconologiche, di comprendere codici e simboli, attributi e colori; la rosa e il giglio, gli stemmi di un casato, l’uva e la mandorla. I testi restituiscono anche gli ambienti e la funzione d’uso originali: le tavole dipinte, ora esposte nei musei, erano semplici e familiari oggetti di devozione profonda; si pregava e si dava del tu a madonne e santi, si promettevano doni in cambio di grazie. Stavano sull’altare di piccole chiese, di umili cappelle della campagna toscana; una devozione spontanea, ignara e non interessata a che, ad esempio, Masaccio fosse l’autore del Trittico di San Giovenale. Riusciamo a rivederle e a riviverle nel loro alveo: «Penso a dove non sei più» scrive Nicoletta e ci conduce proprio là: ecco, la Vergine Assunta è sulla parete dell’altare, c’è anche il paffuto don Vittorio che celebra la Messa. Il registro dell’intimità, il respiro lento della scrittura (e della lettura), così in controtendenza rispetto alle espressioni sincopate e straziate dalle esigenze di una comunicazione affrettata, ci offrono esplorazioni affettive e compongono cartografie di vita, un arcipelago di storie. Le narrazioni fanno sì che le testimonianze del patrimonio culturale siano oggetti d’affezione e i musei diventino ambienti di prossimità; ci sorreggono quali guide nel riconoscere la persistenza nella contemporaneità del significato e della valenza sociale e collettiva di ogni opera. Ci accostiamo al loro esistere nella vera significanza, ritrovando il sapere antropologico di ognuna: la vita quotidiana o la sacralità, il dolore o l’allegrezza, l’arcobaleno delle emozioni e delle paure che accomuna paralleli e meridiani, diversi sì, ma simili nel cuore di ognuno. La conoscenza (ben diversa dalla meraviglia) come conversazione e non come catalogo, il museo quale noi narrante di Storia e di storie (tante, diverse, lontane…) perché siamo “una sola moltitudine” e le testimonianze del patrimonio culturale non devono essere relitti affioranti dalla casualità, ma indizi per comprendere le dimensioni anche del nostro tempo, così multicolore e complesso, instabile e sfaccettato.

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Narrazioni


Dipingere a parole. Storie circolari del Chianti e del Valdarno

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Narrazioni

Ricordi d'autunno

Ricordi d’autunno Alice Chiostrini

Meliore di Jacopo, Madonna col Bambino, 1280 circa Barberino Tavarnelle, Museo d’Arte Sacra di Tavarnelle Val di Pesa

– Alice, su, andiamo! C’è da andare alla Messa alla cappellina! È il 29 settembre, San Michele, e tutto il paese di Tignano si sposta per andare alla cappellina. Avevo otto, dieci anni. Andiamo in auto perché fa caldo a camminare e il posto non è vicino alle case, ma un po’ più in là nel campo, precisamente vicino alla Bandita, la riserva di caccia della famiglia Torrigiani, che possedeva il Castello Del Nero a Spicciano fino a pochi decenni fa, divenuto ora un hotel di lusso. Lasciamo l’auto accostata alla strada perché non si può entrare nella proprietà privata del Castello, e ci incamminiamo sotto il sole settembrino verso la cappellina di San Michele Arcangelo a Casaglia, una delle tante cappelline sparse nel nostro territorio. Si cammina sul crinale che si affaccia su due valli, la Val di Pesa a sinistra e la Val d’Elsa a destra, e sembra di essere al centro del mondo, con i girasoli spiaccicati a terra cotti dal sole, le vigne con le foglie colorate e i campi coltrati in attesa della nuova semina. Finché non si arriva alla quercia, bella e maestosa, un poco piegata su se stessa come se facesse la riverenza per salutare, nel punto in cui la strada piega a sinistra e si vede sul cucuzzolo la cappellina. Una piccola struttura a capanna, simile a tante altre nel nostro territorio, tutta in pietra alberese, con rifiniture in pietra serena e grandi profonde crepe, come le rughe delle tartarughe, che ti chiedi come faccia a stare in piedi... eppure le avevano anche rifatto il tetto da poco! Dalla porticina sgangherata si entra in una piccola aula imbiancata, dove l’unica fonte di luce è l’oculo tondo della facciata. Da lì, nel pomeriggio, si proietta un raggio di luce tutto polveroso e la porta si tappa con la gente che le sta addosso. E allora sì che si sente quell’odore di chiuso, di vecchio, di lucertole morte, che una volta l’anno si spazza via. 33


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Il parroco dice che così si fa rivivere la sacralità del luogo, anche se non ci si va spesso. Ed è importante pregare san Michele, che protegga le persone e i campi dai temporali e dalle tempeste, lì dove i tuoni (i “bubboli”, come si dice dalle mie parti) si sentono il doppio, perché rimbombano tra le due valli. All’interno non c’è posto per tutti e molti restano in piedi fuori a chiacchierare, e forse si sta meglio in piedi che su quelle panche rigide, strette e dure e scomode, con lo schienale che ti batte a mezza schiena, così da essere quasi costretto a piegarti in avanti e sperare che la funzione finisca presto. Per fortuna c’è un bellissimo dipinto su tela: raffigura San Michele trionfante con le anime sulla bilancia che si guardano, una col diavolo e l’altra con l’angelo, che mi ricordano tanto le scenette dei cartoni animati e mi distraggono dalla calura. Sono passati molti anni e la cappellina non si apre più, anzi, non ha più la sua chiave, e la porticina è chiusa col fil di ferro, mentre il dipinto con San Michele è stato portato via dai gestori dell’hotel. Per la mia tesi di laurea inizio a studiare alcuni dipinti medievali, tra cui un’opera di Meliore conservata nel Museo d’Arte Sacra di Certaldo, che in origine era in una chiesetta, anch’essa ormai abbandonata sul proprio cucuzzolo, chiamata Santa Maria a Bagnano. Nel Medioevo questa zona pullulava di chiese, chiesette e cappelline con il corrispettivo numero di anime organizzate in confraternite e compagnie, che non si facevano certo mancare la propria immagine votiva davanti a cui pregare. Nella religione cristiana, si sa, le immagini sacre hanno sempre costituito un veicolo privilegiato per raggiungere Dio. Meliore di Jacopo è uno dei pittori più importanti della seconda metà del Duecento a Firenze. Esigue sono le notizie sulla sua vita, ma sufficienti a renderla molto interessante. Arruolatosi nell’esercito fiorentino insieme a Coppo di Marcovaldo, un altro pittore un poco più anziano di lui, partecipò alla battaglia di Montaperti nel 1260, quando Siena sconfisse Firenze, presa poi d’assalto dai ghibellini. Meliore lavorò con Coppo presso il cantiere del Battistero fiorentino, dove si stava decorando la cupola con i mosaici. Sono molte le sue opere disseminate nel contado fiorentino, soprattutto 34


Narrazioni

Ricordi d'autunno

icone raffiguranti Madonne col Bambino, ma anche santi con le proprie storie, custodite gelosamente in chiesette di pietra, buie e gelide, come se fossero reliquie. Tra le tante Madonne col Bambino di Meliore, vi è anche questa del Museo d’Arte Sacra di Tavarnelle, che non avevo mai notato in passato. D’inverno il Museo rimane spesso chiuso, sia per il freddo, sia per la carenza di visitatori, soliti addentrarsi nella campagna chiantigiana solamente d’estate. Mi avvicino a passi lenti tra vetrine polverose, affollate di oggetti liturgici, muti, conservati sotto vetro per preservarne il pregio artistico e per sottrarli all’avidità dei ladri, ma che ormai hanno perso la loro funzione d’uso. Soffermo un attimo lo sguardo sul cartellino posto al di sotto del dipinto e leggo tra me e me: «Proviene dall’oratorio di San Michele Arcangelo a Casaglia». Stupita, mi chiedo se si tratti della stessa cappellina in mezzo ai campi in cui andavo da piccola alla Messa per San Michele. Non ho più dubbi quando leggo le Memorie del piviere di San Pietro in Bossolo di Luigi Biadi, un voyageur, che nel 1848 descrive e annota come in un diario tutte le notizie allora conosciute relative alla pieve e alle sue chiese suffraganee, cioè minori. Ecco ciò che scrive: «Il tempio (ovvero la chiesina di San Michele) è di piccola mole rettangolare con soffitto a cavalletti. L’unico altare ha la tavola su lo stile d’Iacopo Ligozzi, rappresentante l’Arcangelo S. Michele. Il dipinto [...] si crede sostituito a quello appeso nell’oratorio esprimente la Vergine col Figlio in braccio, lavoro che sembra rimontare al tempo di Margheritone». Da allora la critica non si è data pace nel tentare d’individuare il vero autore del dipinto: Coppo di Marcovaldo o Meliore? Alla fine il dipinto è stato attribuito a Meliore, databile intorno al 1280. Anche quest’icona, come gli oggetti liturgici, ha perduto la sua funzione d’uso e forse l’aveva perduta ancora prima... proprio quando fu appesa alla parete laterale della cappellina di San Michele, per lasciare il posto a un’opera più moderna. Chissà com’era agghindata in origine, coperta dalle sue “mantelline”: ogni icona aveva le proprie cortine di tessuto prezioso, che la tenevano al riparo da sguardi indiscreti, come una tenda che separa due mondi, quello terreno e quello celeste. E si scopriva sola35


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mente al momento del bisogno, un bisogno urgente; ad esempio, quello dei temporali forti e delle carestie che sciupavano i campi. Senz’altro la luce, che dall’oculo filtrava nella cappellina di San Michele, si soffermava su questa tavola, inondandola di bagliori e riflettendo sui volti dei fedeli in preghiera il suo fondo dorato. Esso infatti era tutto ricoperto da una sottilissima foglia d’oro applicata sul colore rosso chiamato “bolo”, che in origine non si doveva vedere. I pittori come Meliore si avvalevano di una tecnica molto raffinata; ad esempio il legno doveva essere ben stagionato, per evitare che si imbarcasse e di solito la cornice si ricavava piallando dall’interno l’asse di base, come per creare una culla. In questo caso, però, la cornice è stata applicata dopo. Eppure Meliore ha voluto che la Madonna abitasse nel mondo terreno, perché la sua aureola sconfina su questa cornice. Ogni Madonna ha un preciso significato e questa è una Theotòkos Hodegétria: in greco, “la Madre di Dio che indica la via”. La via è quella della salvezza tramite il Cristo, raffigurata dal gesto della mano della Madonna rivolta verso il Figlio, che affettuosamente le getta le braccia intorno al collo, in un abbraccio circolare, così da premere il suo piccolo viso sulle guance calde della mamma, come se si rifocillasse nel suo calore. Le mani e i volti sono stilizzati: non alludono alla naturalezza, né alla realtà. Sono dipinti a forza di aggiungere colori, strato per strato, in un processo lento e graduale. Il fondo era ottenuto con un colore verde, chiamato “verdaccio” (se nel dipinto si vede, è perché lo stato di conservazione non è buono, ma di solito non si doveva scorgere); poi si aggiungevano altri colori: dal marrone scuro fino al bianco e il rosso per indicare le parti più in rilievo. Nonostante il gesto affettuoso dell’abbraccio, non si può fare a meno di notare l’espressione malinconica della Madonna: Lei conosce già il destino di suo Figlio! Anche gli angeli sembrano partecipi del suo dolore. Non a caso il Bambino indossa una veste talare bianca, che allude alla sua futura Resurrezione, ma sopra a questa porta il manto rosso della passione, disposto in tralice sulla spalla come la toga dei sapienti, perché il Bambino è nato saggio e come un vecchio ha la fronte stempiata e la schiena ingobbita. I colori sono cambiati nel corso del tempo e dobbiamo immaginare una veste bianca avorio e un manto rosso laccato, tutti solcati da sottili lancette dorate! 36


Narrazioni

â–ś

Ricordi d'autunno

Alcuni dettagli ricercati, sapientemente scelti da Meliore dal repertorio figurativo bizantino, sottolineano il tono regale: i sandalini a infradito del Bambino; il maphorion rosso che trattiene i capelli della Madonna; la fodera del manto come un raso di seta rosa ricamato a puntini. Anche gli angeli sono molto eleganti, con le loro ali variopinte inarcate in avanti e i capelli raccolti con nastrini bianchi che, come i fili di una marionetta, ricordano loro che saranno sempre legati a Dio, loro Padre. La veste è impreziosita da una stola diaconale cosparsa da puntini bianchi che indicano i quarzi e i brillanti, e da forme geometriche azzurre, come le pietre dure incastonate delle oreficerie. 37


Dipingere a parole. Storie circolari del Chianti e del Valdarno

Gli angeli sono discesi dal cielo e si appoggiano lievemente sullo schienale del trono a forma di cetra, ricoperto da un drappo morbido, sul quale siede comodamente la Madonna con il Bambino, mentre osserva i fedeli che pregano per san Michele seduti sulle panche strette e scomode. Poi una cortina di tessuto pregiato cala lentamente sull’icona. La cappellina si svuota e la porta si chiude col fil di ferro, lasciando dentro un silenzio ovattato, polveroso. Fuori, il mio cane rizza le orecchie al rombo dei tuoni che si avvicinano. Dobbiamo far presto a tornare a casa, prima che il temporale si avvicini! E speriamo che san Michele ci guardi e ci protegga!

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Narrazioni

Verso casa

Verso casa

Tiziana Giuliani

Ambrogio Lorenzetti, Madonna col Bambino, 1319 San Casciano Val di Pesa, Museo Giuliano Ghelli

Cammino nella Sala del Trecento, tra tante Madonne col Bambino, e quasi senza volerlo inizio a canticchiare una vecchia ninna nanna: «Fate la ninna coscine di pollo la vostra mamma vi ha fatto un gonnello. Fate la nanna coscine di pollo la vostra mamma con voi resterà». Le parole escono così, poi la vedo, mi fermo, la guardo, oggi come allora. Succede sempre così. Mi fermo, la guardo... non posso farne a meno. «Chissà cosa vede, cosa pensa questa Madonna?». Me lo chiedo sempre, da quella prima volta, diversi anni fa, quando mi fu affidata la realizzazione di uno spettacolo all’interno del Museo. Mi aggiravo per le sale. Era una domenica mattina piovosa, un’atmosfera grigia, ma l’oro di questa tavola illuminava la stanza. La Madonna di Lorenzetti mi catturò all’istante. Così monumentale con il vestito materico blu intenso. Ferma, sfacciatamente frontale su quel trono di legno che ingombra tutta la tavola cuspidata senza dare possibilità di guardare altrove se non Lei; ieratica, statuaria – lo sguardo lontano, i capelli rigorosamente raccolti nella cuffietta avorio con i ricami dorati, i suoi preziosi pendenti – eppure viva, vibrante di profonda tenerezza, nella dolcezza del viso ovale, dall’incarnato chiaro, i tratti dolci della bocca rosea, piccola e chiusa, e gli occhi allungati, intensi, nocciola come la terra di Siena. Una Madonna figlia della tradizione della scuola del primissimo Trecento senese del maestro Duccio di Boninsegna, e tuttavia densa di una nuova linfa vitale, in parte espressa a Siena anche dal fratello Pietro e da Simone 39


Ante restauro 2017

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Narrazioni

Verso casa

Martini, ma che sicuramente il giovane Ambrogio Lorenzetti alimenta, guardando alle fondamentali innovazioni di Giotto che, suo contemporaneo, apportava enormi cambiamenti nella pittura, conosciuti probabilmente da Ambrogio durante il suo primo soggiorno a Firenze. E proprio in quegli anni Ambrogio Lorenzetti, forte di queste novità, è qui nel Chianti e dipinge la sua Madonna per la chiesa di Sant’Angelo a Vico l’Abate. Ce lo dicono le figure grandi dalle masse dilatate e la ricerca prospettica presente in quest'opera. Guardate il trono e i braccioli che cercano quasi di uscire dalla tavola, la scanalatura superiore aggettante, la forma della seduta, seppur bloccata dalla rigidità delle decorazioni delle tarsie lignee. L’opera porta con sé naturalezza e tensione emotiva in quello sguardo profetico della Passione, che va ben al di là di una Madonna col Bambino della tradizione. La cultura artistica senese e quella fiorentina del tempo paiono trovare in Ambrogio Lorenzetti un punto di incontro e di dialogo. La Madonna sembra parlare con gli occhi e con le mani che stringono il Bambino così forte, quasi a voler dire: «Come posso lasciarlo andare...». La mano destra ferma il ginocchio sopra la veste, la sinistra trattiene il braccio nudo del Figlio. Forse la mano è fredda, e per questo il bimbo sembra volersene discostare. È un bimbo paffuto, cicciottello che, diversamente dalla ieraticità della Madre, si concede a una vivacità nuova. Scalcia, scalpita, tira la veste con la mano, di cui si possono contare una per una le dita; fa sbucare il piedino e si muove con forza, tanto che la Vergine quasi fatica a trattenerlo. Si divincola come un bimbo vero, infastidito (chi può dire da cosa), con gli occhi che cercano la Madre: la guarda, la pretende. Sono occhi così, vivaci, “spippolati, sghiribizzati” (così si esprimono gli studiosi di Lorenzetti), intensi come la terra; e i riccioli sono ingarbugliati come trucioli di legno giovane, nodi di alberi di ulivo. Ambrogio mantiene l’iconografia della veste rosso scarlatto, simbolo della Passione, che insieme al corpo seminudo, è preludio della Croce, ma anche già della Resurrezione; eppure il naturalismo espressivo del Bambino, proprio nel contrasto con la ieraticità della Madre, genera una drammaticità nuova. Nessuna delle altre Madonne col Bambino di questa Sala del Trecento è altrettanto intensa. 41


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In quest’opera dedicata a una chiesetta di campagna Lorenzetti raffigura la maternità, la profezia della Passione, l’annuncio della Resurrezione, in una verità che oltrepassa la semplice contemplazione religiosa, per diventare il dolore di ogni madre, di coloro che nel tempo si sono soffermate a pregarla: per la peste che devastava città e campagna, portando via con sé anche i bambini, per le guerre che arruolano figli che non sarebbero mai tornati. Madri di ieri e di oggi, dei contadini di queste terre, dei soldati della Grande Guerra, dei partigiani della Resistenza. Una grande Mater Dolorosa che tiene in grembo la vita di suo Figlio. Dopo tre mesi, lo spettacolo al Museo andò in scena; io interpretavo Maria. Ecco, tutto è cominciato così. Questa tavola è stata per me l’inizio di un durevole rapporto lavorativo con il Museo, ma direi anche con questo paese: da tanto abitavo qui, ma non avevo mai avuto un’integrazione così forte con il patrimonio più intimo della comunità sancascianese. Dal 1989, anno in cui è stato inaugurato, il Museo racchiude in ogni sezione un pezzo del suo territorio, della sua storia; ogni dipinto è stato concepito per abbellire gli altari delle chiese e dei villaggi vicini a San Casciano. Ogni reperto archeologico vive della terra di queste campagne da cui proviene e dalle quali è stato con cura prelevato, per essere protetto dal tempo e preservato per chi verrà; perché chi abita qui oggi ne conosca la storia, ne continui la memoria, arricchendola di altri racconti. In qualche modo, da quel primo incontro con la Madonna col Bambino di Lorenzetti, tutto questo mondo è diventato anche la mia di storia. Io che nasco a Firenze da genitori napoletani, da gente del Sud, forti e voluminosi come la Madonna e il Bambino, gente con la profondità dell’infinito del mare nel cuore e negli occhi: gli occhi azzurri di mio padre, blu come il mantello della Vergine, profondi come il suo sguardo. Io che arrivo qui nel Chianti, per amore e per lavoro, in questa campagna che non conoscevo e che finisco per amare e per sentire mia. Io che ho ereditato un senso di sradicamento dalla mia famiglia, adesso ho trovato una casa: il mio lavoro è la mia casa, il luogo dove convivono i racconti, le “case”, le storie delle persone che qui ho incontrato, nelle scuole del territorio, nei miei corsi di teatro. Sì perché a volte “casa” non è solo un luogo, ma una modalità di essere. Quando qualcuno ti rivela i suoi moti dell’anima, ti svela le sue sug42


Narrazioni

Verso casa

gestioni, i segreti della sua vita, d’improvviso, lo vedi in una luce nuova e da quel momento in poi lo senti più vicino, più familiare. Un radicamento che nasce dal lavoro, una comunità che così mi fa sua perché parlo anche di lei, raccontando di me. Dopo lo spettacolo mi sono affezionata alla Madonna di Lorenzetti e ho voluto conoscerne la storia. Mi incuriosiva il suo approdo al Museo. L’iscrizione al fondo della tavola recita: «Anno Domini 1319 Per rimedio dell’anima di Burnaccio et di Duccio da Tolano, fecela fare Bernardo figluolo Burnacci». Il figlio di Burnaccio, Bernardo, commissiona il dipinto per l’anima del defunto padre e del parente Duccio, tutti provenienti da Tolano, un podere vicino a Vico l’Abate. Dal 1319 l'opera si trova nella chiesa di Sant’Angelo, sulla via Grevigiana, più o meno a diciassette chilometri da San Casciano. Una chiesetta oggi periferica, ma che al tempo doveva essere un centro importante; anche la tavola di San Michele Arcangelo di Coppo di Marcovaldo, viene da lì. La Madonna col Bambino è in chiesa, benché non sappiamo ancora dove fosse posta di preciso. Ma a un certo punto viene come dimenticata e inizia ad affrontare una serie di peregrinazioni documentate, di cui vale la pena parlare. Nel 1519 iniziano i lavori di ampliamento della chiesa: probabilmente la comunità dei fedeli è cresciuta; i lavori procedono a più riprese fino al 1689 e per tutto quel tempo la Madonna resta forse in sacrestia, dove rimane anche dopo che la chiesa viene riconsacrata. Nel 1763 infatti l’Inventario della Chiesa ci informa che la tavola è ancora in sagrestia; qui la vede nel 1892 Guido Carocci, che nella sua Guida storico artistica di San Casciano scrive: «Nella chiesa nessun oggetto è degno di particolare ricordo, mentre in sagrestia fra diversi quadri, appesi alle pareti, alcuni dei quali discreti, due se ne conservano meritevoli di essere 43


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esaminati», riferendosi al San Michele Arcangelo di Coppo di Marcovaldo e alla nostra Madonna col Bambino. Per ben tre secoli, fino alla fine del 1800, è relegata nella sagrestia di Vico l’Abate, senza la possibilità per il popolo di pregarla o anche solo di guardarla. Scampata alla Grande Guerra, nel 1922 è attribuita da Giacomo De Nicola ad Ambrogio Lorenzetti, e risulta essere la sua prima opera datata. Da quel momento per la Madonna inizia un lungo viaggio, che finirà per portarla lontana dalla sua chiesa, dal territorio di cui esprime la devozione: uno sradicamento che durerà a lungo, prima di riuscire a trovare nuovamente il suo posto. Inizia a migrare dalla campagna alla città, a Firenze, e a passare di mano in mano, nel vero senso della parola. A partire dagli anni Trenta, fino agli anni Ottanta, più volte è portata a Firenze per essere esposta e restaurata. Uno dei più importanti interventi di restauro avviene in occasione della mostra agli Uffizi dedicata a Giotto, che si svolge nel 1937, in pieno periodo fascista; anche Re Vittorio Emanuele III ammira in quell’occasione la Madonna di Lorenzetti. Nel frattempo l’opera rientra a Vico l’Abate, se è vero che Franco Lumachi 44


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Verso casa

nella Guida di San Casciano del 1960 la colloca nella prima cappella a destra della chiesa. Fino a che nel 1992 è nuovamente spostata (assieme alla tavola di Coppo di Marcovaldo) da Vico l’Abate a San Casciano, qui nel Museo, per preservarla dall’abbandono del culto della chiesa. Ma le peregrinazioni non sono ancora terminate. All’inizio del 2017 è a Firenze, per un ennesimo restauro in occasione della mostra a Santa Maria della Scala a Siena, completamente dedicata ad Ambrogio Lorenzetti. E camminando per le sale, è proprio la Madonna di San Casciano la prima ad apparire in tutto il suo splendore. Nell’aprile del 2018, conclusa la mostra, ritorna “a casa”. E c’ero anch’io quel giorno a darle il bentornato. Oggi la vedo qui, così luminosa accanto all’Arcangelo Michele, suo compagno d’altare di Vico l’Abate. Ogni volta che la guardo scopro qualcosa di diverso, qualcosa a cui prima non avevo prestato attenzione, un particolare che affiora come se fosse sempre stato lì ad aspettarmi, che suscita la mia immaginazione. E Lei, incredibile, risponde sempre al mio sguardo. Come uno specchio, in cui, ogni volta in modo diverso, scopro di Lei e di me insieme, l’urgenza che ho di raccontare della mia vita in quel preciso momento. In Lei riesco a vedere il mio amore per il viaggio, ritrovo la mia estate in Portogallo in quelle tarsie del trono, identiche al pavimento del Palazzo della Borsa di Porto. Mi parla anche del rapporto tra una madre-fortezza e una figlia che scalcia, perché non può essere una figlia semplice, ma vuole percorrere strade diverse da quelle attese dagli altri, e per questo (o a dispetto di questo) cerca lo sguardo di approvazione della madre, e allo stesso tempo non può stare al sicuro, ferma in una veste che la copre e la protegge, anche se questo può voler dire soffrire. Leggo del mio desiderio di essere fiorentina e sancascianese, ma anche napoletana. Del mio sentirmi sempre in bilico tra due contrasti: la città e la campagna, ma anche il mare; la danza e il teatro, il bidimensionale e il tridimensionale, credere o non credere. Quasi uno specchio di me, insomma, ricco di così tante suggestioni. E Lei risponde sempre al mio sguardo, sempre.

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Il sogno di Caterina Francesca Goggioli

Spinello Aretino, Matrimonio mistico di Santa Caterina d’Alessandria, fine XIV secolo Oratorio di Santa Caterina delle Ruote, Bagno a Ripoli

Siamo fuori dalle mura di Firenze, siamo nel suo giardino. Il rumore della città è lontano. Qui ci si accorge del vento, qui si avverte l’odore delle stagioni. Siamo nella frazione del Comune di Bagno a Ripoli denominata Antella, alle pendici del poggio di Baroncelli, lungo le rive del borro di Rimezzano. Gli alberi che si intravedono laggiù sono i custodi del bosco, fanno da cornice all’orizzonte e segnano il confine tra la terra e il cielo. Saranno quegli alberi a introdurci nella storia raccontata dagli affreschi che si celano al di là della porta dell’Oratorio di Santa Caterina d’Alessandria. Un documento del 1354 attesta l’avvenuta costruzione della piccola chiesa su commissione della famiglia Alberti, proprietaria di vasti possedimenti nei dintorni di Firenze. L’edificio, come altri nella zona, era un luogo di culto incastonato tra le colline, una cappella privata e familiare sorta in prossimità dei domini fondiari. L’umile aspetto esterno dell’Oratorio si armonizza con la natura che lo circonda; la facciata è a capanna e un piccolo campanile a vela slancia timidamente l’edificio verso il cielo. Il paramento murario è in filaretto di alberese: la pietra locale che caratterizza i muri di tante chiese, case, oratori e pievi della zona. Tante pietre compongono l’edificio. Io colleziono pietre. Pietre che portano con sé i segni del proprio viaggio: le carezze dell’acqua, gli scontri e gli incontri di materie. Le pietre si trasformano. Una delle mie preferite è l’ossidiana nera. L’ossidiana è lava raffreddata e il suo cammino inizia dal centro della terra; è liquida e incandescente fino a quando esce dal vulcano e si raffredda, trasformandosi in una pie46


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tra dura, un vetro vulcanico. È sempre un enorme privilegio tenere tra le mani una viaggiatrice del genere. L’alberese invece è una roccia calcarea formatasi dall’accumulo di sedimenti di varia origine; in base alla quantità di minerali argillosi le pietre presentano delle venature, il cui colore si modifica con il passare del tempo. Queste venature sembrano degli alberelli: ecco, forse, da dove deriva il significato del termine “alberese”. La campagna sembra quindi rispecchiarsi in questa chiara facciata. Ricordo la prima volta che entrai nell’Oratorio. Avevo 21 anni, era dicembre e c’era la neve. L’edificio era aperto e ospitava la mostra "L’Oratorio di Santa Caterina all’Antella e i suoi pittori". Ricordo l’ambiente pervaso dalla luce calda, dal silenzio e dagli spifferi invernali. Attraversai la soglia con gli occhi ancora illuminati dal bianco della neve e inizialmente gli affreschi si presentarono come un immenso tappeto di colori. A poco a poco iniziai a mettere a fuoco le immagini. Ricordo un’immensa commozione: proprio lì, vicino casa, tra le mie colline, si nascondeva un tesoro così prezioso, una bellezza quasi segreta. Mi raccontarono che, nel corso della travagliata storia dell’Oratorio, i muri non avevano mai smesso di parlare, anche quando la cappella veniva usata come granaio, pollaio e rimessa agricola. L’Oratorio presenta un’unica navata ed è articolato in due campate e una scarsella, inquadrata da un grande arco a sesto acuto. La decorazione ad affresco principiò dalla scarsella poco dopo il 1354 ed è stata attribuita al Maestro di Barberino e al più giovane collaboratore Pietro Nelli. Dopo un periodo di stallo, dal 1388, i lavori ripresero per volontà di Benedetto di Nerozzo Alberti e la decorazione fu portata a termine da Spinello Aretino, uno dei protagonisti della stagione artistica toscana tra la fine del Trecento e l’inizio del secolo successivo. Le pitture raccontano una storia lontana, quella di Santa Caterina d’Alessandria, la principessa egiziana vissuta tra III e IV secolo e convertitasi al Cristianesimo. Per questa sua scelta venne perseguitata e infine uccisa dai pagani. Sulla parete di destra, nella prima scena in alto a sinistra, inizia la storia di Caterina, che si svolge fuori dalle mura della città, rappresentata dalle architetture in lontananza. Siamo ai margini di un bosco e sembra di 48


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Il sogno di Caterina

riconoscere gli alberi della campagna ripolese. Mi piace pensare che la campagna raffigurata sia la stessa che circonda Firenze e che avvolge l’Oratorio. Caterina, nata ad Alessandria d’Egitto, era una giovane principessa, bellissima, colta e intelligente. All’età di diciotto anni, non essendosi ancora sposata, si recò a chiedere consiglio al saggio eremita, che le indicò una strada ben diversa, che l’avrebbe portata ad abbracciare la fede cristiana. Nella scena un gruppo di persone incuriosite assiste all’incontro tra due donne e l’eremita, che si affaccia da una casetta di pietra. Caterina ha una veste rosso porpora e accanto a lei siede sua madre; la testa delle donne è coronata, ma solo il capo di Caterina è avvolto da un nimbo raggiato e dorato. Il dialogo tra i personaggi è espresso dai gesti delle loro mani, disposte quasi a formare un cerchio che unisce i tre protagonisti; le parole sembrano saltellare tra le dita. I volumi delle figure sono possenti e torniti dalla luce e le vesti dei personaggi sono solcate dalle ombre che creano pieghe consistenti, dai profili ben delineati; i volti sono dolcemente sfumati dal chiaroscuro. Spinello guardava alla pittura giottesca di inizio Trecento, ma era anche attento alle innovazioni della cultura tardo gotica; la possente presenza plastica delle figure è infatti alleggerita dalla vivacità espressiva e dalla ricchezza e dalla fantasia dei particolari. La scena successiva si svolge sempre al romitorio; dal cielo piombano degli angeli e le ancelle della principessa assistono al suo Battesimo. Il momento è raccolto e solenne. L’espressione seria e determinata di Caterina ci fa comprendere quanto coraggiosa fosse la scelta di conversione di questa giovane donna. La storia continua con il Matrimonio mistico di Santa Caterina: il sogno che sancisce l’unione con Gesù e la sua eterna promessa di fede. In questa scena entriamo nella casa di Caterina, uno spazio chiuso, intimo. E lo facciamo in silenzio. Prima di addentrarci nella stanzina fermiamo lo sguardo sulla parte sinistra del riquadro, dove è raffigurato una sorta di loggiato inquadrato da un’edicola di marmo bianco, decorata da gattoni, rosette e intarsi marmorei con ornamenti a mosaico. Sulle pareti verdi del loggiato si apre una bifora gotica, e sotto la loggia è inginocchiata Caterina. Ha le mani 49


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giunte in segno di preghiera, il volto leggermente alzato e proteso verso un piccolo tabernacolo che reca l’immagine della Vergine col Figlio. È sola Caterina, non c’è la madre, non ci sono più le ancelle; ha gli occhi fissi e il respiro quasi trattenuto. Il pittore sembra offrirci una pausa tra il ritmo incalzante delle immagini; un momento di silenzio, un’intimità sospesa. Il capo inclinato della Madonna sembra voler uscire dal tabernacolo per avvicinarsi a Caterina; i loro sguardi si intrecciano. Il viaggio di Caterina inizia qui; inizia da uno scambio delicato e silenzioso tra due donne. Qui inizia il cammino che porterà Caterina alla sua scelta. Nella parte destra del riquadro è raffigurata la camera della santa: una scatola spaziale rosso chiaro dai profili marmorei e intarsiati, protetta da una tettoia aggettante e cassettonata, impreziosita da archetti trilobati, lavorati a traforo. Al centro della stanza c’è un letto con la testata di un legno semplice ed essenziale, in contrasto con lo splendore e il candore del marmo; sul bordo del letto c’è un cassone di legno chiaro, una panca, che un tempo si usava per riporre vestiti e biancheria. Un dettaglio alleggerisce la sfarzosità dell’architettura: è la tendina di cotone bianco sporco che si scorge sullo sfondo. Se questa non fosse scostata, la stanza sarebbe celata. Sembra una tenda usurata, di uso quotidiano; il suo colore candido porta i segni del tempo e delle mani che l’hanno toccata. Questo umile sipario ci permette di entrare in un luogo privato, segreto. Non ci sono porte, non ci sono rumori di serrature e cigolii di cardini; la luce proviene dall’esterno, da destra, entra senza trovare ostacoli. Mi sembra un invito. Accolgo l’invito e immagino di entrare nella stanza di Caterina, e di sedermi sulla panca, nell’angolo vicino alla base del letto. Voglio immaginarmi la stanza ancora vuota e l’arrivo dei personaggi, la loro entrata in scena. E aspetto. Ecco due angeli sulla sinistra, dalle ali d’uccello e dai capelli dorati. Sono molto indaffarati, sostengono un tappetone pesante di velluto purpureo, decorato da fiorellini e bordato da frangette. Forse sono stati loro a portare quel trono di legno, del quale si intravede lo schienale dietro il drappo. 50


Prima il trono, poi il tappetone. Immagino lo sforzo. Immagino anche di sentire un alito di vento sulla schiena, ma non ci sono finestre dietro di me; la tendina bianco sporco si muove e si gonfia di aria. Ecco dall’alto tre angeli, con le ali dalle piume cangianti, che sfiorando la tendina sembrano produrre un fruscio. Il loro sguardo mi riporta sulla sinistra, dove adesso lo spazio è colmo di figure, che forse sono arrivate col vento angelico. I due angeli indaffarati sono ancora lĂŹ, sotto sforzo. 51


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Sul trono è seduta una donna: è Maria, con il suo mantello blu e il piccolo Gesù posato sulle ginocchia. La sua posizione non è comoda, è seduta sul bordo del trono. Forse i due angeli indaffarati hanno steso il drappo troppo in avanti, forse l’arrivo repentino di Maria col Figlio non ha dato loro il tempo di sistemarsi meglio. Il tappetone rappresenta il drappo d’onore, la stoffa preziosa che orna il trono della Vergine. Mi piace pensare che per ogni drappo d’onore steso nei dipinti sacri ci siano due angeli indaffarati che si occupano dell’allestimento. Ma ecco la protagonista della scena, riconosco la sua treccia bionda, il suo abito principesco. Forse il vento angelico l’ha svegliata, ma non è assonnata. Porge la mano sinistra al Bambino che con fare un po’ goffo cerca di infilarle l’anello al dito; per fortuna c’è sua mamma ad aiutarlo. 52


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Il sogno di Caterina

Un anello, un simbolo di unione: Caterina si legherà per sempre alla fede cristiana. Con sguardo serio e fermo la giovane osserva l’azione. Di nuovo, intorno a uno scambio si compie una trasformazione. Qui a dialogare sono una mamma, una ragazza e un bambino: tre generazioni che si guardano. Sembra la rappresentazione del legame eterno tra la consapevolezza di una madre e l’istintività di un bimbo giocoso. Forse è questa la scelta di Caterina. Immagino che del respiro sovrannaturale rimanga solo il battito d’ali dei due angeli indaffarati in equilibrio nell’aria; non possono smettere di svolazzare, gli angeli non poggiano i piedi sulla terra. Forse sono proprio loro i registi del sogno di Caterina, ed è forse il loro drappo a separare il sogno dalla realtà. Poi l’apparizione svanisce e l’immagine rimane. La stanza è ancora gonfia di aria angelica; la tenda che proteggeva la camera di Caterina, la teneva al caldo, la teneva segreta, adesso pare una vela spiegata di una barca in partenza. Caterina è pronta per iniziare il suo cammino e il vento muove lei e la tendina. Il vento la porta fuori da sogno, nella scena successiva, dove è in piedi, tra una platea di uomini e si rivolge a un Re. Ha assunto quella coscienza che adesso le permetterà di agire. Oggi, davanti agli affreschi, provo la stessa commozione di nove anni fa. Nel momento in cui spengo le luci dell’Oratorio esito a uscire e rimango ferma a osservare. Percepisco la materia dei colori, l’epidermide dell’intonaco, l’abrasione della pittura, le crepe del muro. I personaggi sembrano pietrificati. Adesso è la materia a parlare, e tutto mi sembra più umano. A luci spente, con un nodo in gola, sento il mio respiro, avverto la natura che circonda la cappella, ascolto il silenzio, mi ricordo delle venature dell’alberese. Il viaggio di Caterina forse porta qui: ai sassi, alle radici, ai respiri, al silenzio, alla semplicità. Resto sempre qualche minuto ferma a guardare, come se qualcosa mi trattenesse. Poi, forse, è proprio il vento di Caterina a darmi la spinta per uscire. Sicuramente è il suo vento che mi richiama sempre a tornare. 53


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Angeli di terra

Maria Italia Lanzarini

Masaccio, Trittico di San Giovenale, 1422 Reggello, Museo Masaccio d’Arte Sacra

Ad Annalisa La prima volta che ho sentito parlare di Masaccio avrò avuto sette o otto anni. Passavo per caso vicino alla scala che portava in cucina; lì c’erano mia mamma e don Renato che parlava a bassa voce. – Capisci? Non possiamo lasciarlo a Firenze. Questo Masaccio è nostro. Alla Soprintendenza lo devono capire! Non so cosa abbia risposto mia mamma; avevo sentito quello scambio solo per caso e sinceramente non aveva per me nessuna importanza: ignoravo del tutto quell’argomento. Eppure ora, a distanza di tanti anni, quel ricordo è riaffiorato nella mia mente, riportandomi il fotogramma della tonaca nera del prete e la sua voce bassa ma appassionata. Ora Masaccio fa parte della mia vita, dovendo spesso presentare e spiegare ai visitatori del Museo questa sua prima opera: il Trittico di San Giovenale. Questo Masaccio è di San Giovenale, come don Renato e don Ottavio, il parroco che ha voluto accoglierlo nel Museo; San Giovenale era una delle tante piccole chiese del piviere di Cascia, la pieve di San Pietro ne era la chiesa madre, dove veniva impartito il battesimo. Il Trittico, datato 23 aprile 1422, venne ad abbellire questa chiesa, immersa nella campagna, grazie a una committenza multipla: quella delle ricche famiglie fiorentine che avevano in questa parte di contado le loro ville, come i Castellani e i Carnesecchi, il Vescovo di Fiesole, lo stesso popolo di San Giovenale. Tommaso di Giovanni di Mone Cassai, detto Masaccio, lo dipinse a Firenze, dove si era trasferito verso il 1418 da San Giovanni Valdarno, e fu presumibilmente portato a San Giovenale il 3 maggio 1422, domenica 54


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e festa del santo, che coincideva con quella della Croce di Maggio. Per più di cinquecento anni è stato custodito in questa piccola chiesa, poco più di una stanza, oggetto di una devozione ignara del fatto che quella Madonna e quei santi fossero stati dipinti da Masaccio; il Trittico sarebbe addirittura stato riconosciuto come la prima opera dell’arte nuova del Rinascimento. Per la prima volta Masaccio applica la prospettiva centrale, e per la prima volta lo spazio in cui sono collocati i personaggi è misurabile e abitabile; tutti hanno i piedi saldamente poggiati a terra su questo pavimento verde, dove le linee dorate convergono nel punto di fuga posto sotto al collo della Vergine, creando il ventaglio di supporto alla profondità del dipinto. In questo spazio campeggia il trono monumentale, in pietra, con ornati cosmateschi, dallo schienale arcuato, che ricorda le absidi delle chiese romaniche (come quella di San Giovenale irrimediabilmente perduta), e buca lo sfondo d’oro, tributo alla tradizione gotica, alla quale Masaccio, sebbene già moderno, non poteva sottrarsi per compiacere i facoltosi committenti. Ma chi sono gli abitanti delle stanze di questa casa? Li guardo e avverto nelle loro espressioni una certa scontrosità: volti aspri, ombrosi, che suscitano un certo timore; sono i contadini di questa parte di Toscana, diffidenti, di parole scarne, che non consentono cortesie gotiche. Entro timidamente nella stanza di sinistra. 56


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Incontro Bartolomeo e Biagio, entrambi santi martiri, come attesta il bel rosso corallo della tunica del primo e del piviale del secondo: il colore rosso in contrasto col bianco lattiginoso del manto di Bartolomeo e quello più luminoso della veste di Biagio. Bartolomeo è giovane, ha una folta e riccia capigliatura e una lunga barba. Guarda verso il basso in atteggiamento di ascolto, in colloquio con il compagno di stanza che volge impercettibilmente lo sguardo verso di lui, come a suggerirgli qualcosa. San Biagio è molto autorevole e ne porta i segni: la mitra calcata sulla testa, da cui fuoriesce una ciocca dispettosa di capelli brizzolati, e il bel pastorale. Hanno entrambi in mano gli strumenti del loro martirio, un coltello per Bartolomeo e un raspino chiodato per Biagio. Eppure questi strumenti non mi provocano disagio. Anche i miei zii, Vittorio e Umberto, usavano attrezzi simili; mio zio Vittorio dietro il bancone di marmo della bottega di alimentari a partire e affettare formaggi e salumi e, a pochi passi da lui, nel forno di là dalla bottega, mio zio Umberto, che nelle vigilie delle feste, oltre al pane, faceva anche i dolci, tra cui il millefoglie; bucava la sfoglia con una piccola tavoletta chiodata, che anch’io mi divertivo a usare. Un san Biagio pasticcere. La mia casa era un insieme di mestieri, tutti nello stesso edificio: la bottega, la trattoria, l’albergo, il forno, il frantoio. E la mia famiglia era 57


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composta da tre famiglie, la mia e quelle dei fratelli di mia mamma. Praticamente un “trittico”. Tutti insieme, con orari strampalati per pranzi e cene, vivevamo in stanze che erano camere d’albergo, con un andirivieni di persone che entravano e uscivano. E poi c’eravamo noi, io e mia cugina (ora lei fa la maestra), che cercavamo insieme una via di fuga da questo mondo di adulti immersi nel lavoro quotidiano. Eccoci qua: due angeli nel vestito della festa, quello della prima comunione, inginocchiate per la foto di rito. In equilibrio un poco instabile, tanto che l’angelo a sinistra allarga le braccia per trovare maggiore stabilità e l’altro si curva un poco in avanti a mani giunte. È bello sentirsi angeli, siamo al centro della scena, almeno per stamattina; si fa una bella colazione con la cioccolata e le briosches, si fanno le foto, si ricevono i regali. Ricordo bene la presenza delle nostre mamme, non quella dei babbi. A mezzogiorno tutto svanisce perché oggi al ristorante ci sono due o tre banchetti di prima comunione. Vediamo le nostre coetanee, tutte belle con i loro abiti bianchi, le “spepere”, e noi no. Ormai ci siamo tolte il nostro vestito e mangiamo da sole in un tavolino di emergenza. Ma abbiamo ancora sulle nostre spallucce le piccole ali del cardellino; sono ali che non volano, sono di angeli di terra. Giriamo le spalle a questo mondo di adulti che ci ha lasciato sole, un mondo che comunque ci circonda. Torniamo a osservare il Trittico di San Giovenale. I santi del comparto di destra si specchiano su quelli del comparto di sinistra per completare il corteo intorno alla Madonna con il Bambino. Nel libro che sant’Antonio Abate, in primo piano, tiene nella mano sinistra ritroviamo il rosso delle vesti di Bartolomeo e di Biagio, ed è l’unico punto di colore sul vestito nero e grigio scuro del santo. Il suo volto di vecchio, incorniciato dalla lunga barba bianca e dai radi capelli che lasciano intravvedere la cute della testa, ha un’espressione quasi minacciosa; gli occhi sottolineati dal rosso della congiuntiva bucano come spilli, la fronte aggrottata, la bocca serrata. La tensione sembra confluire tutta nella presa decisa del bastone a tau puntato sul pavimento, dove un minuscolo maialino ci rammenta che 58


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sant’Antonio Abate è il protettore degli animali; in ogni stalla dei contadini si poteva trovare una sua immagine. Nel padiglione cereo del suo orecchio riconosco un segno di mio nonno; viveva con noi ed era sordo, e talvolta, non percependo bene le parole, aggrottava la fronte nello sforzo di capire. Padre severo con i suoi figli, era lui a tenere in mano le redini della casa. Ma era un nonno dolce con me e mia cugina, le sue piccole, e con noi non si vergognava di essere affettuoso. Accanto a questo nonno c’è mio padre: dico così perché san Giovenale è un santo “di passaggio”; pare infatti che la dedicazione della piccola chiesa a questo santo vescovo sia dovuta alla sosta che vi fece il marchese Adalberto I riconducendo a Narni le sue reliquie, trafugate a Lucca. Anche mio padre era di passaggio a Reggello nel 1944, venuto a controllare i frantoi per conto del comando di Finanza di Firenze dove prestava servizio militare; vi era arrivato da Marzabotto a seguito della strage che gli aveva decimato la famiglia, e a Reggello trovò casa. San Giovenale ha un’espressione intensa, concentrato sulla lettura del 59


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salmo 109 (forse lo sta addirittura cantando), è il salmo messianico che profetizza la venuta del Salvatore. Sorregge nella destra inguantata il libro dal quale penzolano i fermagli della legatura segnando la forza di gravità. Si possono quasi contare le pagine, tanto è raffinato il disegno e leggere distintamente le parole in latino: dominus domino meo. È la scrittura di Masaccio, che, dopo essere stata messa a confronto con l’unico suo autografo, un documento catastale del 1428, ha definitivamente chiuso la questione relativa all’attribuzione del Trittico. Guardata a distanza potrebbe sembrare una teoria di strani segni neri, come apparivano a me le lettere stampate quando non sapevo ancora leggere. Il mio babbo le leggeva per me, la sera nel lettone, accucciata sotto le sue braccia, e quelle formichine nere diventavano meravigliose favole. Era un rito sacro che avveniva una volta la settimana, quando tornava da Firenze con il fascicolo settimanale di novelle edite dalla Fabbri; momenti avvolgenti, come il mantello color vinaccia di san Giovenale, dalla panneggiatura essenziale e vera. La sua mano sinistra stringe a forca il pastorale, e mi ricorda il gabelliere che successivamente dipinse Masaccio per la cappella Brancacci; il ricciolo è girato all’interno, segno di giurisdizione sulla chiesa di cui il santo è eponimo. Il pastorale sembra poi sparire, non più visibile nel comparto centrale, quasi in contatto con l’abito dell’angelo di destra che si perde dietro la cornice. Sono io quell’angelo e avverto benissimo l’autorevolezza di quel pastorale, so che mi pungola. Ma nessuno può comandarmi in questo comparto: è il mio spazio parallelo. Questo mondo altro era centrale per me e mia cugina, dove inventavamo la nostra realtà. Mio nonno aveva comprato la villetta stile fine Ottocento adiacente all’albergo, che si trovava in uno stato decadente, dove si poteva accedere liberamente. Noi eravamo affascinate da quell’edificio dalle stanze dipinte a motivi floreali o geometrici; lì ci inventavamo le nostre vite di mamme in una famiglia normale, in una casa normale, con orari normali. Abitavamo quello spazio come questa Madonna abita il suo trono dalle raffinate decorazioni cosmatesche. Lei sorregge il Bambino in posizione eretta, sostenendogli il piedino e stringendogli affettuosa la spalla, tanto da poterne cogliere i segni sulla pelle chiara. Masaccio impiega una tecnica particolare per differenziare la sovrapposizione dei due incarnati: una piccola linea rossa ereditata dalla miniatura. Gesù è robusto, 60


Narrazioni

Angeli di terra

quasi un piccolo Ercole ma pienamente bambino: si succhia le dita rese zuccherine dall’uva, simbolo eucaristico, che tiene nella mano sinistra, pienamente integrata nella naturalezza del gesto. La Madonna ha un’espressione pensosa, presaga di un futuro che strapperà quel figlio dalla sua stretta. Per noi bambine il futuro era invece l’oro dello sfondo, che tutto può contenere ma non il dolore. Forse anche per Masaccio, appena ventunenne, doveva essere così. Quando la sera rientravamo a casa, il nostro gioco comunque continuava. Lo chiamavamo fare le mamme “a vero”, perché l’invenzione si adattava ai momenti del reale. Ora, davanti al Trittico di San Giovenale, posso dire che il futuro sognato allora non è stato solo d’oro, ma si è dipinto di molti colori, una tavolozza dalle molte sfumature, come questa di Masaccio. Comunque sono riuscita ad abitare il mio spazio, misurabile nella prospettiva della normalità.

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Dipingere a parole. Storie circolari del Chianti e del Valdarno

San Lorenzo… la luce dei ricordi Daniela Matteini

Ludovico Cardi detto Il Cigoli, Martirio di San Lorenzo, 1590 Figline e Incisa Valdarno, Museo d’Arte Sacra della Collegiata di Santa Maria

Il Museo d’Arte Sacra di Figline è incastonato tra la Collegiata di Santa Maria, da cui prende il nome, e il suo archivio, dove sono conservati i libri degli Stati delle Anime della comunità di Figline Valdarno. Vicino a questa memoria secolare è custodito un enorme dipinto, il Martirio di San Lorenzo del Cigoli, che riempie di sé e della sua apparente oscurità la piccola sala che è ora la sua casa. Sono stati proprio gli antichi documenti della Collegiata che studiavo nell’estate del 1995 a farmi conoscere quest’opera imponente e fortemente suggestiva che mi ha molto affascinato. Ludovico Cardi, artista dal temperamento sensibile e malinconico, fu incaricato dalla Confraternita di San Lorenzo di Figline Valdarno di realizzare questa pala d’altare per la chiesa dell’omonimo spedale, che si trova sul lato opposto della piazza dove affaccia la chiesa. Una commissione prestigiosa per un giovane artista, ottenuta forse grazie all’attenzione dei Serristori, importante famiglia di Firenze e del Valdarno. Conoscevo il Cigoli dagli studi universitari. Artista educato nella tradizione fiorentina del disegno e sull’esempio dei maestri della Maniera, è definito «il Tiziano e il Correggio fiorentino». Nel corso della sua attività modificò il proprio stile, adottando il luminismo, le calde e avvolgenti cromie dei pittori emiliani e veneti, fino a giungere a una nuova «maniera di colorire, naturale e vero». Il Martirio di San Lorenzo è un esempio della pittura cosiddetta “riformata”, caratterizzata da rappresentazioni fortemente devozionali, poiché l’arte in quel momento si fa portavoce delle richieste della Chiesa della Controriforma e deve commuovere il fedele. In effetti il dipinto di Figline si caratterizza per un deciso realismo espressivo e per una composizione audace, teatrale, ricca di forti contrasti luministici, dove la luce 62


Narrazioni

â–ś

San Lorenzo...la luce dei ricordi

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Dipingere a parole. Storie circolari del Chianti e del Valdarno

e l’ombra si alternano a suggerire le diverse profondità spaziali e l’emozione del racconto. Un pathos che mi cattura e mi affascina, complice anche la ricchezza dei dettagli che si nascondono tra le pieghe di questa scena tanto complessa. L’oscurità che avvolge l’ambiente, appena interrotta in lontananza da una flebile lama di luce, è per me un’immagine familiare. La piccola porta che si dischiude sul fondo è un déjà-vu che fa riaffiorare i ricordi della mia infanzia. Ecco, sto scendendo le scale che dalla mia casa portano al piano di sotto dove vivono i miei nonni; abitiamo in un condominio, una palazzina semplice, con un piccolo cortile delimitato da una siepe di gelsomino. Apro la porta – proprio quella porta – e faccio capolino, emozionata e incuriosita. Davanti a me si apre il lungo corridoio immerso nella penombra, freddo e sempre sconosciuto, mi incute paura e mi fa esitare; sembra che strane figure si muovano in lontananza, alla fine di questo cono d’ombra. Ma la nonna sta sulla soglia della porta: mi chiama, e la sua voce mi dà coraggio. Entro nella luce e nel calore della cucina. Come nel ricordo, i miei occhi davanti a questo dipinto devono adattarsi all’oscurità e prestare molta attenzione perché a poco a poco numerosi e minuti dettagli della scena, a prima vista nascosti, si svelano. D’altronde, sono da sempre una buona osservatrice: fin da piccola dovevo scrutare le espressioni del mio babbo che parlava poco ed era spesso corrucciato. Vedo un giovane uomo in primo piano, trattenuto a forza con lunghe spranghe di ferro e immobilizzato da due aguzzini, disteso su una graticola sotto la quale ardono carboni accessi. È Lorenzo, diacono della Chiesa di Roma, sottoposto al martirio per la sua fede cristiana; adagiato su un fianco, irrigidito nello spasmo del dolore, così bello che sembra quasi non soffrire le atrocità della pena. Il riverbero delle fiamme colpisce la schiena del feroce aguzzino. Ha la camicia abbassata per il calore, il corpo contorto in una posa quasi in64


Narrazioni

San Lorenzo...la luce dei ricordi

naturale, tesa a evitare le vampate, mentre costringe il corpo del condannato. Più arretrato, richiamato alla luce dal riflesso rosso dei tizzoni accesi, l’altro persecutore è intento nella medesima azione, con l’espressione assorta. L’atmosfera tenebrosa della notte è pervasa dai bagliori delle fiamme, dalle iridescenze dei carboni ardenti. Questo fuoco mi fa sentire ancora sul viso la vampa del calore della stufa nella cucina dei miei nonni, quando aprivo lo sportello per mettervi i ciocchi di legno; mi piaceva attizzare il fuoco, vedere le faville che salivano e sentire lo scoppiettio della legna da ardere. La domenica nella cucina dei nonni si preparava la coradella fritta, e io, in un angolo, imitavo i grandi con la mia piccola cucinina. La stessa luce rossa, lo stesso calore, dovevano essere familiari a Ludovico Cardi, che amava lavorare nella penombra del suo studio fiorentino in via Pier Capponi, dietro il Convento della SS. Annunziata, rischiarato solo dal chiarore del fuoco. Era intento a indagare: «lo ignudo (il nudo) alla luce di una stufa», osservando come il riflesso della luce del fuoco accarezzasse le figure, ammorbidendone i contorni. Chissà come avrebbe disegnato il mio viso di bambina davanti alla stufa dei nonni… La luce del dipinto disvela ancora quelle che parevano ombre. Possiamo distinguere i personaggi che assistono imperturbabili al dramma di Lorenzo. Al centro, sotto un alto drappo verde, le insegne militari romane 65


Dipingere a parole. Storie circolari del Chianti e del Valdarno

annunciano la presenza dell’imperatore Valeriano che nell’oscurità osserva la scena seduto in trono; vicino a lui, accompagnato da un soldato in armatura, il volto rivolto verso l’osservatore, vi è Daciano, prefetto dell’Urbe. Questo volto, i capelli corti, la barba bianca richiamano alla mia memoria mio nonno. E allora, ritorno osservatrice immobile, inconsapevole e impotente nei confronti della sofferenza e del dolore. Sono la piccola testimone del martirio di mio nonno Armando, provato dalla malattia, bloccato nel letto, sulla “sua graticola”, che invoca la morte. Lo faceva spesso. Alzava le mani e diceva: – La mortaccia, perché non mi prende? Gli volevo bene e gli chiedevo perché parlasse così. Mi rispondeva semplicemente: – Vivo solo per te! L’oscurità nasconde il peso del dolore di Lorenzo, lo stesso di mio nonno. Ma la luce della grazia investe il corpo del santo, con lo sguardo estatico verso il cielo che si apre sopra di lui, mostrando la corona e la palma, simboli della vittoria del martirio, e premio di vita eterna. È il 10 agosto del 258. A distanza di molti secoli, nel 1973, nella stessa notte d’estate moriva mio nonno. Anni dopo, in quella stessa notte, una stella venne verso di me: mio figlio.

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Narrazioni

Lo splendore della terra

Lo splendore della terra Nicoletta Matteuzzi

Benedetto e Santi Buglioni, Vergine Assunta, inizio del XVI secolo San Casciano Val di Pesa, Museo Giuliano Ghelli

Ti vedo quasi ogni giorno e sono felice di averti qui nel Museo, al sicuro, in una sala piena di luce e spesso affollata di persone, che ti possono ammirare: sei un’opera imponente e bella. Davanti alla tua presenza, però, penso a dove non sei più. Non posso fare a meno di immaginarmi sempre, per un attimo, quando ti vedo densa di colore, il vuoto che ha preso il tuo posto sulla parete dove sei stata per secoli, nella piccola chiesa di Santa Maria a Casavecchia. Un vuoto grande come te, irregolare e profondo di mattoni strappati, in quella chiesa che ora, perduta te, non ha più nulla. Ti ricordo quando eri ancora lì, sulla parete dietro l’altare, a cui prestavi servizio anche come tabernacolo: don Vittorio, che era piccolo e rotondo, si sporgeva con fatica verso lo sportellino, dandosi un poco di spinta e appoggiandosi con la mano sinistra sulla mensa troppo ampia. Ti ricordo brillare di celeste e bianco, giallo e verde, nella penombra dell’aula spoglia e male illuminata, dove la luce entrava solo dall’oculo alto della facciata e dalla finestrina a destra. In quell’aria grigia, oltre la fila delle panche e gli angoli più bui, non c’era altro da guardare che te. E tu, ora come allora, non nascondi nulla della tua bellezza semplice. Con semplicità ti lasci guardare. Ti offri ai nostri occhi con allegra e sfacciata umiltà. Sul tuo sfondo azzurro limitato da un festone, la Vergine è trasportata in Cielo da tre coppie di angeli dalle pose scomposte, che la sorreggono al di sopra di un prato di alti fiori bianchi. Quasi solo questo, se non fosse per la predella in basso, che raffigura le piccole scene del Battesimo di Cristo e del Martirio di San Lorenzo e al centro una Pietà, con Cristo morto che 67


Dipingere a parole. Storie circolari del Chianti e del Valdarno

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Narrazioni

Lo splendore della terra

sorge dal sepolcro sorretto dolcemente dalla Madre e compianto da san Giovanni Evangelista. Tutto è coperto della superficie smaltata propria della terracotta invetriata. Tutto, tranne il volto e le mani della Vergine, dettagli spogli in cui si rivela la semplice argilla di cui sei fatta, grigia e porosa. Nonostante questo, il viso di Maria è delicato e giovane. Le mani, invece, sono grosse e scrostate, con esigue tracce di pittura rosa. Sono atteggiate in preghiera; non sono però garbatamente unite, ma arcuate, e si toccano appena, solo con le punte delle dita. Non sono le mani tenere di una Madonna, ma mani callose e inspessite, tanto che non riescono più a distendersi completamente. La mia nonna aveva queste mani perché era nata contadina e a lavorare nei campi mani e viso, per quanto belli, si sciupano per il sole o il freddo. Anche il mio babbo le ha così, perché con le mani lavora il cuoio da più di quarant’anni. Io conosco il motivo per cui queste parti non sono invetriate: in alcuni dei numerosi libri studiati ho letto che il colore rosa non è adatto per la tecnica dell’invetriatura e l’unico modo per rendere più naturali gli incarnati è quello poco durevole di stendere a secco il rosa sull’argilla già cotta. Grazie ai miei studi di storia dell’arte conosco molte cose di te. So che i fiori sono un richiamo chiaro alla Vergine, perché la rosa è il fiore che la rappresenta e il giglio le fu donato dall’arcangelo nel momento dell’Annunciazione. So che questi fiori nascono dalla tomba vuota di Maria, che sta salendo al Cielo come donna e non solo come spirito. So che la mandorla in cui Lei è racchiusa è un segno arcaico di santità. 69


Dipingere a parole. Storie circolari del Chianti e del Valdarno

So che gli stemmi in basso sono quelli della famiglia Da Casavecchia, antica signora di queste colline e patrona della chiesa. So riconoscere che non sei stata fatta nella bottega dei Della Robbia, ma in quella rivale dei Buglioni, che a cavallo tra Quattro e Cinquecento hanno realizzato molte opere simili fuori Firenze e anche oltre la Toscana. Quel pettegolo del Vasari dice che Benedetto Buglioni, grazie all’aiuto di una donna innamorata, abbia rubato ai maestri Della Robbia la ricetta segreta dell’invetriatura, secondo la quale è prevista una seconda cottura dell’argilla cosparsa di uno smalto composto da polvere di silice e ossidi di stagno, piombo e altri metalli, che col calore del forno si fonde e rende lucente e duratura la terracotta. Ecco, so tutte queste cose e altre ancora, ma per quanto questo mi renda felice, so che non è altro che un’invetriatura superficiale sopra l’essenza vera e portante: la terra e la forma che le è stata data. Del resto, tu mi hai conosciuta prima che iniziassi a studiare, quando appartenevo ancora tutta alla mia famiglia e parlavo solo la lingua dei contadini. Attraverso gli occhi della Vergine mi hai vista prima che io ti vedessi, al funerale del mio nonno lì a Casavecchia: non ti rammento, ma so che eri lì in mezzo al buio della mia memoria, là sulla parete di fondo, dove nel ricordo mi appare solo un taglio di luce obliqua, proveniente dalla finestra in alto a destra. Sei assente nel ricordo, ma ora sei qui davanti a me. 70


Narrazioni

Lo splendore della terra

E io dentro di te cerco il mio nonno Dante: lo cerco dappertutto, in verità, tanto che la sua presenza è costante nella mia vita, anche se ne ho conosciuto quasi solo la mancanza. Lo cerco nei tuoi festoni di frutta, nell’elemento meno originale della tua composizione, un orpello messo dai Buglioni per abitudine, copiando i Della Robbia. Lì vorrei vedere delle pere e delle prugne; naturalmente non le trovo perché nei festoni ci sono solo piccole mele gialle, qualche spiga di grano e goffi fiori azzurri e violetti sulle foglie verdi smeraldo dei mazzi che compongono il tralcio, formella per formella. Ma anche la loro mancanza è sufficiente per farmi sentire di nuovo vicino il nonno Dante, in uno dei pochi ricordi che ho di lui da vivo. Lo vedo in piedi accanto alla tavola del nostro soggiorno, dove sono seduta con la mamma, il babbo e la nonna. Rido, e sento la mia testa che si gira veloce verso di lui, che sta davanti alla finestra della terrazza, da dove entra una luce dorata che lo avvolge, mista ai riflessi verdi delle foglie dell’albero che lui stesso aveva piantato anni prima. Dal campo vicino a casa, in una cesta, mi ha portato delle piccole pere gialle, che so per certo essere state dolci, e delle prugne viola, che altrettanto certamente so essere state aspre. Doveva essere l’estate del 1986 perché a luglio dell’anno dopo il nonno è morto. Avevo quattro anni. Per fortuna, lo ricordo mentre sorride.

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Apparati


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Musei e territorio Bagno a Ripoli, Oratorio di Santa Caterina delle Ruote L’Oratorio di Santa Caterina fu edificato entro il 1354 da Jacopo e Giovanni degli Alberti, proprietari di molte terre nel piviere di Santa Maria all’Antella. Le pareti esterne dell’edificio sono di semplici bozze di alberese, mentre all’interno una splendida decorazione a fresco della seconda metà del Trecento narra le storie della santa ad opera del Maestro di Barberino, di Pietro Nelli e di Spinello Aretino. Con la rovina della famiglia Alberti per l’oratorio cominciò un lungo periodo di decadenza. Nel XVII secolo parte degli affreschi furono scialbati e per un periodo l’edificio fu destinato ad uso colonico. Dall’inizio del XX secolo furono intrapresi restauri alla struttura e agli affreschi, l’ultimo dei quali realizzato nel 1996-1998. L’oratorio, dopo numerosi passaggi di proprietà, è stato acquisito dal Comune di Bagno a Ripoli nel 1988. Ogni anno ospita eventi e mostre, tra cui quelle organizzate dalle Gallerie degli Uffizi. Barberino Tavarnelle, Museo d’Arte Sacra di Tavarnelle Val di Pesa Il Museo d’Arte Sacra di Tavarnelle è collocato nelle sale al primo piano della canonica attigua alla pieve di San Pietro in Bossolo (XI secolo). La raccolta fu creata nel 1989 con le opere del XIII-XVIII secolo provenienti dalle chiese del territorio comunale; sono esposti inoltre numerosi oggetti liturgici e una piccola raccolta di ex-voto. L’opera più antica è la duecentesca Madonna col Bambino di Meliore di Jacopo; da ricordare anche la Madonna col Bambino di Rossello Franchi che, ritenuta miracolosa, giunse a San Pietro da San Giusto a Petroio con una grande processione nel 1718. Significative le tavole provenienti dal santuario di Santa Maria al Morrocco, realizzate da Neri di Bicci per la chiesa da poco fondata da Niccolò Sernigi. Il museo ospita mostre di arte sacra contemporanea, visite e laboratori didattici. Figline e Incisa Valdarno, Museo d’Arte Sacra della Collegiata di Santa Maria In due sale annesse alla sagrestia della Collegiata di Santa Maria a Figline è allestita dal 1983 una preziosa raccolta d’arte sacra, che completa la visita alla chiesa, dove è esposta la bellissima tavola trecentesca del Maestro di Figline con la Madonna col Bambino, i Santi Elisabetta d’Ungheria 74


Apparati

Musei e territorio

e Ludovico di Tolosa. Il museo conserva una collezione di dipinti, arredi sacri, oreficerie, paramenti e codici miniati provenienti dalla Collegiata o da vicine chiese figlinesi. Oltre alla pala del Martirio di San Lorenzo del Cigoli, si ricorda un “polittico” con Adorazione dei Magi e Santi, realizzato nel 1436 da Andrea di Giusto Manzini su commissione dei Serristori, ritratti nella predella. Curiosa la serie di insegne in legno policromo con simboli della Passione, utilizzate per la processione del Venerdì Santo. Reggello, Museo Masaccio d’Arte Sacra Il Museo Masaccio, nato nel 2002, è ospitato nei locali retrostanti la pieve di San Pietro a Cascia (XI-XII secolo). Qui si conserva il celebre Trittico di San Giovenale, custodito nell’omonima chiesetta fino al 1961 - anno in cui fu attribuito a Masaccio - e rientrato poi a Reggello da Firenze nel 1988. Al Trittico, prima opera del grande pittore valdarnese e soglia del Rinascimento, è dedicata un’intera sala del museo con supporti documentari e didattici. La collezione comprende anche dipinti, parati e oggetti liturgici provenienti dalle chiese del territorio di Reggello e inoltre icone russe e oggetti cerimoniali ebraici. La “Camera del pievano” è, infine, una saletta dalle pareti affrescate con finte architetture e vedute, tra cui quella della pieve di Cascia, opera forse del quadraturista settecentesco Giuseppe Del Moro. Il Museo è un organismo vivace, che ospita numerosi eventi e promuove la ricerca sulle proprie collezioni. San Casciano Val di Pesa, Museo Giuliano Ghelli Il Museo di San Casciano fu allestito nel 1989 all’interno della chiesa di Santa Maria del Gesù o del Suffragio e in alcuni spazi attigui. Nel 2008 si è arricchito di nuove sale ricavate dai locali di un antico convento di monache benedettine; la chiesa, tuttora officiata, è stata mantenuta parte del percorso museale. Alla collezione di opere d’arte sacra sono state aggiunte la sezione archeologica e quella della abitazioni primitive. Le opere – compresi oggetti liturgici e parati – e i reperti provengono da chiese e scavi del territorio comunale di San Casciano. Notevoli in particolare la Stele etrusca dell’Arciere, la scultura del XII secolo del cosiddetto Maestro di Cabestany, il San Michele di Coppo di Marcovaldo e la Madonna col Bambino di Ambrogio Lorenzetti da Sant’Angelo a Vico l’Abate. Il Museo è un fulcro importante della vita culturale locale e accoglie laboratori, campus, incontri e mostre. 75


Dipingere a parole. Storie circolari del Chianti e del Valdarno

Associazioni e Gruppi Associazione Culturale Le Muse Le Muse promuove iniziative per diffondere la cultura in tutti i suoi aspetti, valorizzare il patrimonio artistico, paesaggistico e culturale toscano e del Valdarno in particolare, con significativo riferimento alle realtà museali e monumentali del territorio. La collaborazione con professionisti ed esperti nei vari campi d’interesse (storici dell’arte, guide turistiche, operatori didattici) è alla base dell’organizzazione di corsi, visite, convegni, attività nelle scuole. Associazione Culturale Gruppo della Pieve Il Gruppo della Pieve si è costituita nel 2000 con lo scopo di promuovere e diffondere la storia, la cultura, il patrimonio artistico e le tradizioni del territorio, con particolare attenzione per i Comuni di Reggello e Rignano sull’Arno. Per raggiungere questi obiettivi l’associazione ha come metodo preferenziale il teatro, non tralasciando gli altri canali di comunicazione. Una particolare attenzione viene dedicata al rapporto con le scuole. Amici del Museo di Impruneta e San Casciano “Marcello Possenti” L’associazione Amici del Museo di Impruneta e San Casciano è nata nel 2006 col patrocinio del Lions Club Firenze e si occupa della valorizzazione del territorio e della sensibilizzazione verso l’arte e la storia locali. Promuove restauri, organizza mostre, conferenze e ricerche e propone numerosi percorsi didattici dedicati all’arte e alla storia all’interno dei musei del Sistema Chianti Valdarno, avvalendosi della collaborazione di giovani illustratori e storici dell’arte. Teatro dei Passi Il Teatro dei Passi, nato nel 2000, è un gruppo che realizza eventi teatrali, attento alla valorizzazione del patrimonio storico e artistico del territorio del Chianti fiorentino. Negli anni si è specializzato nella realizzazione di performance presso siti culturali (musei, aree archeologiche) e la commemorazione di eventi storici. Offre attività per le scuole e si occupa della formazione di bambini e giovani presso il Teatro Niccolini di San Casciano per Arca Azzurra Teatro. 76


Apparati

Valore Museo per Dipingere a Parole

Valore Museo per Dipingere a Parole Egle Radogna

Dipingere a parole è la sfida al rilancio di un territorio a cui sono orgogliosa di aver preso parte sia nella elaborazione del progetto che come mediatrice dei contenuti storico artistici multimediali che lo hanno riguardato e lo riguarderanno. Valore Museo, progetto di valorizzazione dei piccoli e grandi musei toscani lanciato da Fondazione Cassa di Risparmio di Firenze, con il sostegno di Fondazione Fitzcarraldo, è l’esperienza che nel 2018/2019 mi ha portato a supportare e potenziare identità e rapporto col territorio della rete museale del Chianti e Valdarno fiorentino assieme a Nicoletta Matteuzzi, coordinatrice scientifica del Sistema, i Comuni e i loro Uffici Stampa. Perché questa idea di “dipingere a parole” un territorio e le sue “storie circolari”? Questo libro è una piccola finestra su un lavoro grande e variopinto, come lo è in effetti un’opera d’arte spiegata con un innovativo metodo di narrazione museale, partecipativa ed esperienziale per il pubblico. L’uso dei canali multimediali mi ha permesso di mediare in anteprima le narrazioni delle opere d’arte poi dipinte in dialoghi unici perché umani, come mano d’opera è l’immagine. Non sempre apriamo l’ascolto o la voce a chi siamo e cosa davvero ci stimola a “dipingere a parole” i nostri pensieri, le nostre sensazioni, passate, presenti e future. Questa esperienza vi inviterà a farlo perché la nostra esteriorità è nell’interiorità di infanzia, viaggi, luoghi e cambiamenti, che si ricongiungono nel cerchio ideale delle storie di un territorio. «Quando i contenuti della nostra memoria saranno trasformati evolveranno in un significato artistico, inevitabilmente diverranno “qualcosa di differente”», Roberto Illiano1. 1. R. Illiano, Musical Notation and Figurative Arts, in Music and Figurative Arts in The Twentieth Century, (Speculum Musicae, XXIX), a cura di R. Illiano, Lucca, Brepols Turnhout - Centro Studi Opera Omnia Luigi Boccherini, 2016, p. XIII. Illiano riprende il concetto già espresso da Luigi Dalla Piccola nel suo contributo in Parole e Musica, 1980. 77


Dipingere a parole. Storie circolari del Chianti e del Valdarno

Riferimenti bibliografici Per una bibliografia esaustiva sul metodo autobiografico e i musei di narrazione, si rimanda a: Un patrimonio di storie. La narrazione nei musei, una risorsa per la cittadinanza culturale, a cura di S. Bodo, S. Mascheroni, M. G. Panigada, Milano, Mimesis, 2016. C. Bishop, Museologia radicale, Monza, Johan & Levi Editore, 2017 (2013). S. Bodo, S. Mascheroni, Educare al patrimonio in chiave interculturale. Guida per educatori e mediatori museali, Fondazione Ismu, Milano, 2012. J. Clair, La crisi dei musei. La globalizzazione della cultura, Ginevra-Milano, Skira, 2008 (2007). P. Clemente, E. Rossi, Il terzo principio della museografia. Antropologia, contadini, musei, Roma, Carocci, 1999. J. Clifford, Strade. Viaggio e traduzione alla fine del XX secolo, Torino, Bollati Boringhieri, 2008. R. Illiano, Musical Notation and Figurative Arts, in Music and Figurative Arts in The Twentieth Century, (Speculum Musicae, XXIX), a cura di R. Illiano, Lucca, Brepols Turnhout - Centro Studi Opera Omnia Luigi Boccherini, 2016. M. I. Lanzarini, Un vuoto un pieno, Firenze, Pagnini, 2017. A. Malraux, La politique, la culture, Parigi, Gallimard, 1996. C. Marchi, Il tuo nome sulla neve. “Gnanca na busia�. Il romanzo di una vita scritta su un lenzuolo, Milano, Il Saggiatore, 2012. P. Schneider, Louvre, mon amour, Monza, Johan&Levi Editore, 2012 (1967).

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Indice 11 14 17 20 22 26

I - Contributi Claudio Rosati | Cinque piccoli musei Emanuela Daffra | Voci per il patrimonio Emanuela Rossi | Il metodo narrativo nei musei: i racconti d’affezione Mario Perrotta | Gli occhi poggiati sulla terra. Punti di vista che modellano i territori Maria Grazia Panigada | Narrare di luoghi e di anime Silvia Mascheroni | Le parole per dirlo: legami d’affezione tra patrimonio e vita

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II - Narrazioni Alice Chiostrini | Ricordi d’autunno Meliore di Jacopo, Madonna col Bambino, 1280 circa | Barberino Tavarnelle, Museo d’Arte Sacra di Tavarnelle Val di Pesa.

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Tiziana Giuliani | Verso casa Ambrogio Lorenzetti, Madonna col Bambino, 1319 | San Casciano Val di Pesa, Museo Giuliano Ghelli

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Francesca Goggioli | Il sogno di Caterina Spinello Aretino, Matrimonio mistico di Santa Caterina, fine XIV secolo | Bagno a Ripoli, Oratorio di Santa Caterina

54 Maria Italia Lanzarini | Angeli di terra Masaccio, Trittico di San Giovenale, 1422 | Reggello, Museo Masaccio d’Arte Sacra 62

Daniela Matteini | San Lorenzo… la luce dei ricordi Ludovico Cardi detto Il Cigoli, Martirio di San Lorenzo, 1590 | Figline e Incisa Valdarno, Museo della Collegiata di Santa Maria

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Nicoletta Matteuzzi | Lo splendore della terra Benedetto e Santi Buglioni, Vergine Assunta, inizio del XVI secolo | San Casciano Val di Pesa, Museo Giuliano Ghelli

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III - Apparati Musei e territorio Associazioni e gruppi Valore Museo per Dipingere a Parole Riferimenti bibliografici 79


Finito di stampare nel mese di giugno 2019 per conto di Masso delle Fate Edizioni presso Nova Arti Grafiche Via Cavalcanti, 9/D - 50058 Signa (FI) www.novaartigrafiche.it


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